Come nel titolo di un film di Terrence Malick, c’è una sottile linea rossa che separa la difesa dall’aggressione, il diritto alla sicurezza dalla tendenza a considerare minaccia ogni assestamento della società. "Ci sentiamo più sicuri se il governo decide di prendere le impronte ai bambini rom e manda l’esercito nelle piazze?"
A chiederlo è il responsabile nazionale della giustizia per l’Arci, Franco Uda, che domenica all’Asinara ha preso parte al dibattito "Pena, diritti e garanzie". Il confronto, moderato da Marco Ligas, era una tassello importante di "Pensieri e parole - Libri e film all’Asinara e Alghero", la tappa di "Isole del cinema" iniziata sabato proprio nell’ex supercarcere di Fornelli e in programma fino al 3 agosto. Il festival vuole sottolineare la storia del luogo che lo ospita con una riflessione che ha spaziato dai Cpt a Bolzaneto, dal ruolo dei media all’indulto.
La decisione di svuotare le carceri affollate continua a dividere. A difenderla, Stefano Anastasia, che da presidente dell’associazione Antigone si occupa di diritti e garanzie del sistema penale. "È stata una scelta coraggiosa e giusta - sostiene -, non si potevano tenere sei detenuti in celle per due persone, e in condizioni di completa illegalità. La maggior parte delle persone liberate non è rientrata in carcere. Ma subito dopo l’indulto è mancata una politica che evitasse un nuovo sovraffollamento".
Una prassi consolidata in Italia, per don Andrea La Regina, della Caritas: "In Italia facciamo belle leggi, ma ne manca sempre un pezzo. I cittadini non si sentono chiamati in causa. Non pensiamo mai di impegnarci a realizzare qualche obiettivo che lo Stato ha fissato". Un’idea condivisa da don Ettore Cannavera, che aiuta adolescenti in situazioni difficili e oggi chiede più coinvolgimento delle persone e un ripensamento generale del sistema penale, perché punti alla vera rieducazione. Oggi occorre permettere al detenuto di saldare il suo debito e ricostruire la sua esistenza.
Ma le carceri italiane sono molto indietro con i tempi, come sottolinea il rappresentante di Amnesty International, Gianni Manca: "Per la nostra associazione il capitolo italiano non si assottiglia mai, è sempre più voluminoso. Questo paese si avvia verso una fase pericolosa. La soglia dei diritti si abbassa. Qualcosa non va se si risponde a tutto con l’esercito".
Anche i fatti di Bolzaneto avrebbero avuto un esito molto probabilmente diverso in un altro paese, dato che l’Italia non consente ai cittadini di identificare le forze dell’ordine, per esempio con un codice visibile sulla divisa. Quello che si respira è clima di paura perenne, dove forse l’insicurezza nasce dall’angoscia di non potersi costruire una vita, prima ancora che dal timore del proprio vicino.
E la stampa diventa quasi un alleato del sistema che ha "piegato l’efficacia dell’informazione ai titoli urlati" come ha detto Uda, o "taciuto la provenienza di moltissimi clandestini - aggiunge Manca -, somali in fuga che scappano dai conflitti. Ma l’Italia non ha una legge vera in materia di asilo, e così li respinge, violando anche i trattati internazionali".
(nell'immagine) Jacqueline Ledda - "Metamorfosi dell'immagine"
1 commento:
Perché da noi la paura diventa sempre emergenza
di Luigi Manconi
Il Sole 24 Ore, 31 luglio 2008
In Italia aumenta "l’insicurezza percepita", che porta a misure eccezionali d’ordine pubblico In Inghilterra gli scontri tra bande giovanili hanno provocato 21 morti: media e opinione pubblica si interrogano, ma considerano i fatti con molto pragmatismo.
Diciamola tutta e subito: una distinzione troppo sofisticata tra insicurezza reale e insicurezza percepita risulta pressoché inservibile sul piano della vita sociale e del discorso pubblico. Quella distinzione, pure utilissima nell’ambito dell’analisi scientifica, è drammaticamente incapace di fornire risposte alle ansie collettive.
Per capirci: a poco giova ricordare tenacemente che oltre l’80% delle violenze sessuali avviene in famiglia quando una particolare deriva sociale evidenzia una successione di stupri a opera di cittadini romeni contro donne italiane. Così come il rilevante calo di omicidi negli ultimi decenni non "compensa", nel sentire comune, l’incremento dei furti in appartamento.
E allora si pensi a cosa potrebbe accadere nel nostro Paese e nel nostro sistema di relazioni sociali "se Roma fosse come Londra". Dove si registra una tragica ecatombe di morti per accoltellamento. Nei giorni scorsi il Ministero dell’Interno della Gran Bretagna ha pubblicato statistiche dettagliate sugli omicidi all’arma bianca in quel paese. La polizia d’Inghilterra e del Galles ha registrato 22.151 denunce di aggressioni con coltelli nel 2007. Nella sola Londra, le denunce sono state 7.049.
Ma c’è un dato, se possibile, ancora più allarmante: dal primo gennaio 2008, nella capitale inglese, sono stati uccisi a coltellate 21 teenager, e una parte consistente di quegli omicidi è attribuita all’azione di bande. Il Governo non cede agli allarmismi giovanili. L’opinione pubblica inglese, la classe politica, i mass media e le forze dell’ordine, evidentemente, si trovano in uno stato di grave inquietudine: ma - fatte salve le debite proporzioni demografiche - cosa mai sarebbe successo se a Roma, da gennaio 2008, fossero stati assassinati a colpi di coltello una dozzina tra adolescenti e giovani?
Minimo minimo, una parte del ceto politico avrebbe chiesto la requisizione preventiva di tutti i coltelli e i più zelanti si spingerebbero fino a pretendere la rilevazione delle impronte digitali di cuochi e macellai (in particolare, se terroncelli).
Sia chiaro: non che in Inghilterra manchino le campagne d’ordine, le mobilitazioni emotive, le richieste di capri espiatori e di misure drastiche-pur-che-sia. La competizione per l’elezione del sindaco di Londra è stata profondamente segnata dai conflitti in tema di sicurezza e Boris Johnson, appena eletto, ha dichiarato che la questione della violenza giovanile "è il primo problema di questa città".
E sarebbe difficile negarlo, considerate le cifre crudeli sopra riportate. Ma è come se, su tali temi, dominasse comunque uno sguardo assai diverso da quello prevalente nel nostro Paese. Certo, nemmeno a Londra domina un eccessivo fair-play tra i partiti finalizzato a sottrarre questioni così delicate alla faziosità delle polemiche politiche; e nessuna armoniosa strategia bipartisan in materia di ordine pubblico. Emerge, tuttavia, uno stile differente. Che è anche sostanza e, direi, cultura.
La cosiddetta "questione criminale" e quella sua particolare articolazione che è la devianza giovanile (tanto più quando si fa omicida), sembrano poter sfuggire alla polemicuccia settaria e al politicismo d’accatto per assumere una maggiore, e tragica, consapevolezza. Qui si palesa un singolare paradosso, che poi paradosso forse non è: la società inglese, in particolare quella metropolitana, più avvezza alla consuetudine (fino alla promiscuità) con la violenza "fisiologica", quotidiana e di strada, sapesse reagire con razionalità e pragmatismo agli eventi più drammatici, trattandoli come accadimenti previsti dalla vita sociale anche quando ne alterano l’ordinario svolgimento.
È stato così persino in occasione degli attentati islamisti del luglio 2005 che non hanno prodotto una particolare legislazione speciale e che, pur prevedendo nuovi istituti e misure più severe, non hanno dato luogo a mutamenti significativi negli stili di vita e nella libertà di movimento dei cittadini del regno (a differenza di quanto è accaduto negli Stati Uniti).
Indubbiamente la legislazione inglese ha già una sua collaudata attrezzatura antiterroristica, dovuta al lungo e cruento confronto con l’irredentismo armato irlandese, ma proprio questa antica consuetudine suggerisce, evidentemente, un approccio non nevrotico al periodico esplodere della violenza nella vita del paese. Anche sotto questo profilo l’Italia non è stata in grado di fare esperienza della sanguinosa stagione del terrorismo.
La mancata riflessione collettiva su quel fenomeno, la reticenza verso una seria e responsabile autocritica sulle molteplici radici di esso e, infine, l’aver affidato alla repressione da parte delle forze dell’ordine il compito di sconfiggerlo: tutto ciò ha prodotto questo ulteriore e negativo risultato. Ovvero l’incapacità di affrontare lucidamente e intelligentemente, senza censure e senza psicodrammi, gli strappi sociali e le lacerazioni violente.
Impotenti come siamo stati a comprendere la specificità, e le molte cause, del terrorismo italiano (specie quello rosso), ne abbiamo vissuto con sollievo la sua catalogazione come evento eccezionale e come "emergenza": e, conseguentemente, la sua assunzione a modello di tutti i fatti apparentemente "inspiegabili" e, a loro volta, eccezionali.
Dopo il terrorismo rosso, tutto diventava emergenza, certo in scala minore, ma con un’enfasi e una drammatizzazione non troppo dissimili. In successione serrata, una sequenza pressoché infinita e implacabile di "stati d’eccezione": stragismo, terrorismo nero, mafia, camorra e ‘ndrangheta, droga, aids, corruzione politica, immigrazione irregolare, tifo violento, pedofilia, black block, fondamentalismo islamista, attentati dell’11 settembre, "i marocchini!", "gli albanesi!", "i romeni!" "gli zingari!", ...e, infine, "l’emergenza rifiuti" (ma anche colera, terremoti e altri disastri naturali, influenza aviaria). E oggi l’estensione della "emergenza immigrazione" a tutto il territorio nazionale. Si pensi, dunque, a come sarebbe stata vissuta, catalogata, variamente definita e politicamente gestita una eventuale "emergenza accoltellati".
Insomma, è come se la società italiana stentasse sempre a far tesoro del proprio passato, anche quando (forse soprattutto quando) esso è più dolente. È come se non fossimo mai pronti: sempre presi alla sprovvista, alla lettera sprovveduti e inadeguati, inesperti della propria esperienza. Smemorati della propria memoria. Una sorta di spensieratezza senile che qualifica come immaturo e immemore il carattere nazionale.
È questo che fa la differenza, probabilmente, rispetto alla società inglese. D’altra parte l’epopea criminale di Meckie Messer, e del suo "coltello che vedere non fa", viene ambientata da Berthold Brecht nei quartieri di Londra, mica a Tor Pignattara.
Nei bassi fondi della capitale inglese Mackie Messer lascia tracce incancellabili del suo passaggio: "Jenny Towler l’han trovata / un coltel ficcato in cuor". Certo, oggi non resta più nulla del romanticismo delinquente dell’Opera da tre soldi, ma la persistenza del coltello come arma privilegiata - e feroce fino all’efferatezza e allo stridere dei denti - se non consente corrive interpretazioni sociologiche, farà sicuramente la gioia di scrittori e sceneggiatori e registi.
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