
Il sottosegretario Alberti e la vergogna negata del carcere sassarese. "Tutto funziona" assicura la relazione eppure nelle celle piccole, puzzolenti e con poca aria i detenuti sono stipati.
Il sottosegretario di Stato alla giustizia Maria Elisabetta Alberti Casellati è, come diceva Shakespeare di Bruto, una donna d’onore. Dovremmo dunque crederle quando, in risposta all’interrogazione del Partito democratico sul carcere sassarese di San Sebastiano, ci assicura che tutto va bene: corsi di alfabetizzazione per italiani e stranieri, un corso di scuola media di 150 ore, una convenzione in atto con l’Università, moduli per l’insegnamento dell’informatica e, nella sezione femminile, addirittura per stiliste di moda (sì, avete capito bene, per stiliste di moda).
E inoltre un servizio "voce amica", un servizio "nuovi giunti" con un’ esperta criminologa e un medico, uno sportello informativo per detenuti stranieri e uno per gli italiani, attività di biblioteca con convenzione esterna, una collaborazione con la Asl per i detenuti con problemi psichici. Insomma, un paradiso in terra. Peccato che il giorno di Ferragosto, in visita al carcere come parlamentare, io abbia visto coi miei occhi detenuti stipati malamente in celle fatiscenti, servizi di custodia largamente sotto organico, caldo opprimente, scarsa luce e poca aria, il bugliolo maleodorante nel pavimento delle celle; e, ancora, assenza totale di attività formative, un bugigattolo adibito pomposamente ad officina privo di qualunque attrezzatura, l’acqua per bere della sezione maschile raffreddata alla meno peggio involgendo le bottiglie nelle calze bagnate, insetti nel cibo, un detenuto con il viso deturpato perché - mi è stato detto - la notte sente le voci e sbatte la testa alle sbarre.
Non avrebbe dovuto, quella persona malata, essere ricoverata in una struttura psichiatrica? Non avrebbero potuto quelle bottiglie d’acqua essere raffreddate in frigorifero? Non avrebbe dovuto quell’invasione di insetti essere combattuta con adeguate disinfestazioni? L’onorevole Maria Elisabetta Alberti Casellati non ha risposto, limitandosi a leggere compitamente la nota fornitale dai suoi uffici. Lei crede ciecamente che a San Sebastiano le detenute imparino a fare le stiliste di moda. Ho letto intanto, proprio sulle pagine della "Nuova Sardegna" la denuncia disperata di uno degli ospiti di questo presunto hotel a quattro stelle che invoca il trasferimento ad altro carcere: dovunque, purché sia. Ho parlato con gli agenti di custodia, largamente sotto organico (questo, bontà sua, lo ammette anche la sottosegretaria), che l’altro giorno hanno dovuto persino fare un sit-in in via Roma per denunciare la loro insopportabile situazione.
Ho controllato su fonti ufficiali i dati sul personale: tre soli educatori per tre carceri come Sassari, Tempio ed Alghero, 192 unità nella polizia penitenziaria a Sassari contro le 212 previste. E c’è qualche detenuto che compila la classifica: meglio il carcere di Badu ‘e Carros, che almeno è moderno, dello scempio di San Sebastiano. Si aspetta con ansia che apra la nuova struttura in costruzione a Bancali. La sottosegretaria dice che il nuovo istituto (quattrocentotrenta posti) potrà ospitare i primi centoventicinque detenuti solo dal marzo 2010 (primo lotto, finanziato e appaltato). Per il completamento bisognerà trovare altri 31 milioni di euro, ma non si sa dove né quando. E intanto ci terremo la vergogna di San Sebastiano.
4 commenti:
epatite C, la malattia infettiva più diffusa in carcere
Redattore Sociale - Dire, 3 ottobre 2008
Ne soffre il 38% dei detenuti; il 7% è positiva all’Hiv e il 6,7% all’epatite B. Novati, infettivologo consulente di Opera (Milano): "Non abbiamo mai avuto epidemie". Il problema maggiore è costruire la fiducia col paziente.
È l’epatite C la malattia infettiva più diffusa negli istituti di pena italiani: ne soffre il 38% dei detenuti. C’è poi un 7% della popolazione carceraria positiva al virus Hiv e un 6,7% positivo all’epatite B. "C’è poi la tubercolosi - spiega Roberto Monarca, responsabile nazionale dell’area malattie infettive della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria -. La percentuale di positività al test di Mantoux è superiore al 50%: persone che hanno avuto un contatto pregresso con la malattia e che indica una condizione di infezione latente". Malgrado i numeri e le difficoltà oggettive (vedi lancio precedente) non è il caso di parlare di allarme. Per Stefano Novati, infettivologo dell’ospedale San Matteo di Pavia e consulente per il carcere di Opera (Milano) "i problemi maggiori sono quello organizzativi. Il carcere è un condensato di marginalità, ed è evidente che vi siano concentrazioni maggiori di patologie. Non abbiamo mai avuto epidemie, né di Tbc né di epatite".
Ma c’è un’altra difficoltà che incontrano i camici bianchi del carcere: la difficoltà a costruire la fiducia con il paziente detenuto, elemento fondamentale nel rapporto medico-paziente. "Il detenuto si vede imporre la figura del medico, un problema che si aggrava ancora di più per gli stranieri - spiega Roberto Monarca -. Per questo dovremo avvalerci di mediatori culturali, ma anche di peer educators: detenuti formati per trasmettere conoscenze mediche tra pari".
L’iniziativa, portata avanti con il progetto "In&Out", ha coinvolto quattro istituti di pena italiani (San Vittore, Viterbo, Rebibbia e Bari) in cui si è lavorato per informare i detenuti sull’importanza di sottoporsi al test di screening per individuare la positività al virus Hiv. "Solitamente la media di accettazione è del 30% - commenta Roberto Monarca - con questo progetto l’accettazione del test di screening è passata al 70%".
i sieropositivi sottostimati e "l'allarme" per la sifilide
Adnkronos, 3 ottobre 2008
Secondo ministero 2% con Hiv, i medici penitenziari stimano il quadruplo. Tre detenuti sieropositivi su quattro fuggono alle statistiche ufficiali.
"Invisibili" per i dati del ministero della Salute, che stima al 2% la quota di persone con Hiv dietro le sbarre. Eppure, secondo le stime dei medici penitenziari, i casi "sono quattro volte di più e sfiorano l’8%". A sottolinearlo oggi a Milano, a margine del IX Congresso della Società italiana di medicina e sanità penitenziaria (Simspe), è Sergio Babudieri, infettivologo dell’università di Sassari e vicepresidente della Simspe. "Una tale discrepanza - spiega - è dovuta al sommerso. Il test per l’Hiv, infatti, viene fatto oggi a meno del 30% dei nuovi arrivati, mentre a fine anni ‘80 la percentuale dei controlli superava il 50%".
Ciò significa, aggiunge, "che è calata la soglia di attenzione e non si considera che la patologia tocca gli eterosessuali e non solo più omosessuali e tossicodipendenti". Il quadro è scoraggiante anche sul fronte delle terapie: difficile che i detenuti le seguano con costanza. "Il tasso di successo delle cure dietro le sbarre - osserva Babudieri - è del 40%, quando fuori dalle carceri tocca il 70-80%".
Su questo fronte l’unica arma, secondo i medici, è la terapia controllata. "Quando per esempio l’infermiere accerta che il detenuto ha ingoiato le pastiglie, si è osservato che il tasso di successo cresce vertiginosamente, raggiungendo quota 85% e superando l’efficacia che si registra nel mondo fuori" dai penitenziari.
È allarme sifilide fra sieropositivi e omosessuali
Si pensava fosse una malattia estinta e invece la sifilide torna a colpire, soprattutto nelle carceri. A segnalare il fenomeno è Andrea Franceschini, direttore sanitario del carcere Regina Coeli, e presidente della Società italiana medicina e sanità penitenziaria (Simspe). Si tratta di osservazioni cliniche, chiarisce oggi a Milano, a margine del IX congresso della Simspe.
Ma i dati "sono già in elaborazione. Quello che stiamo osservando - aggiunge - è una recrudescenza della sifilide. Abbiamo fatto un lavoro di valutazione nelle carceri di Rebibbia e Regina Coeli, con la cattedra di dermatologia dell’università la Sapienza di Roma, ed è emersa una ripresa della malattia. Sicuramente ora è più frequente rispetto a qualche anno fa".
La ricomparsa della sifilide, sottolineano gli esperti, ha riguardato soprattutto detenuti sieropositivi e in particolare maschi omosessuali. Ma il carcere "è un concentrato di patologie, sia infettive che psichiatriche, perché gran parte dei carcerati, soprattutto stranieri, ha uno stile di vita in cui la salute non rappresenta un bisogno primario", commenta Sergio Babudieri, infettivologo dell’università di Sassari e vicepresidente Simspe.
Nella lista delle malattie infettive più diffuse c’è l’epatite C, che coinvolge il 38% della popolazione carceraria, pari a decine di migliaia su 55 mila detenuti negli istituti di pena italiani. E ancora l’Hiv (circa 3-4 mila detenuti) e l’epatite B che interessa il 6% dei carcerati, portatori della patologia. "Una buona fetta di questi viene dai Balcani dove si registra un’epidemia di questa epatite", conclude.
nelle carceri italiane è negato il diritto all’affettività
di Davide Madeddu
L’Unità, 3 ottobre 2008
È una pena accessoria non scritta. Ossia l’affettività negata dal carcere. Perché la porta che si chiude alle spalle del detenuto lascia fuori anche la possibilità di coltivare gli affetti. E nega, quindi, ai detenuti anche la possibilità di avere incontri anche intimi o sessuali con i propri partner.
Riccardo Arena di Radio carcere spiega: "Il problema non è quello che funziona ma quello che non c’è. Si fa prima a dire cosa c’è e come si va avanti, con sale colloqui sistemate in cameroni dove tutti sono assieme. È chiaro che l’intimità sparisca". Non è tutto. "La pena ha come effetto, scontata in questo modo, quello di distruggere anche le famiglie. Diciamo pure che la mancanza di affetto e affettività tra detenuti e parenti è una pena accessoria non scritta ma veramente grave".
Inutili, a sentire Arena, che è avvocato penalista, i paragoni con altri paesi. "Siamo lontani anni luce dalla Spagna. E poi bisogna pure dire che allo stato delle cose non ci sono neppure gli spazi perché a questo aspetto pochi hanno dato importanza".
Una situazione che, come spiega anche Vittorio Antonini, ergastolano e presidente dell’associazione Papillon di Rebibbia "ti porta ad innamorarti dell’insegnante piuttosto che del volontario o della volontaria perché all’interno delle carceri manca la cosiddetta vita normale".
Un esempio per spiegare anche quanto avvenuto poco tempo fa a Pisa dove un’insegnante di settant’anni è stata denunciata da un ispettore della polizia penitenziaria per essere stata sorpresa con un detenuto quarantenne.
"È la natura del carcere, la costrizione e la negazione di questa fetta di normalità - prosegue Antonini - che fa nascere queste cose". Ornella Favero, direttore responsabile dell’agenzia di informazione "dal e sul carcere" www.ristretti.it non ha dubbi: "L’Italia è dietro altri paesi anni luce. Le sale per i cosiddetti colloqui intimi esistono anche in Albania, negli Stati uniti e in alcuni stati dell’America latina - dice - solo l’Italia non prevede la tutela di questo importante aspetto della vita".
Per affrontare il problema con cui devono convivere le migliaia di detenuti distribuiti nelle diverse carceri d’Italia Ornella Favero non usa giri di parole. Non fosse altro per il fatto che la sua associazione e la sua rivista agenzia da anni affrontano e ne discutono. "Non è la prima volta che nella nostra redazione si parla di sesso - dice - , ma la cosa triste è che passano gli anni, passano le discussioni, ma nulla cambia".
"La proposta di legge sugli affetti, sul "diritto all’intimità", elaborata nella Casa di reclusione di Padova nel 2002, giace mai calendarizzata, e per dirla rudemente "non gliene frega niente a nessuno" o quasi". Situazione che però non scoraggia i volontari: "Ma noi insistiamo testardamente a parlare dei disastri prodotti dalla privazione del sesso nelle persone, e manteniamo viva l’attenzione su un Ordinamento penitenziario che mette le famiglie al centro del percorso di reinserimento del detenuto".
Da qui il quesito che pone il direttore di Ristretti Orizzonti: "La domanda, assolutamente elementare, è allora la seguente: ma quali famiglie? Quelle sfasciate dalla galera? Di tutto questo abbiamo discusso recentemente in redazione".
Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, l’associazione che si occupa della difesa dei diritti dei detenuti, ricorda quando "siamo andati vicini a trovare una soluzione". "Era il periodo del governo D’Alema e sottosegretario era Franco Corleone e Alessandro Margara - spiega Gonnella - e in quel periodo si cercò di ottenere una regolamentazione più elastica dei rapporti tra conviventi o coniugi in sale chiuse e senza controllo visivo". Progetto che però viene stoppato da una sentenza del Consiglio di Stato.
"La legge prevede che ci sia un controllo visivo mentre il regolamento proprio questo aspetto non lo prevedeva e il Consiglio di Stato aveva rimarcato la necessità di modificare quindi la legge". Risultato? "Non si è fatto più nulla e oggi, con quello che sta succedendo, pensare che possiamo stare al passo con gli altri paesi diventa veramente un’utopia".
Luigi Manconi, presidente dell’associazione A Buon Diritto ed ex sottosegretario alla Giustizia avrebbe una proposta: "Il problema è che vanno trovate soluzioni logistico residenziali che possano per un verso il rispetto della norma generale e per l’altro garantire la possibilità di una vita affettiva ancorché limitata" perché, aggiunge "non esiste ragione al mondo o norma che prevede questa sorta di mutilazione della sessualità, non esiste norma che preveda una castità coatta e per contro è agevole dimostrare in termini scientifici che una vita di relazione anche sessuale è un contributo fondamentale all’identità e all’equilibrio del recluso e reclusa".
L’amore in una cella, una testimonianza
È il dramma che non si racconta. Che tutti vivono in silenzio dentro la cella: quello di non poter toccare la pelle di una donna o anche di sentirne solo la voce anche lontano dal chiasso della sala colloqui. Elton Kalica, detenuto albanese racconta il suo dramma e i problemi in un lungo intervento pubblicato proprio da Ristretti Orizzonti, e scritto al termine di una sorta di tavola rotonda sul sesso, amore negato e carcere. Una lettera dura, cruda e diretta in cui Elton Kalica racconta il suo dramma, rimane in carcere dieci anni, che è poi quello che accomuna buona parte dei detenuti presenti nelle carceri d’Italia.
"Qualche mese fa, leggendo dei giornali provenienti dall’Albania, il mio paese, mi sono imbattuto in una notizia che ho subito raccontato ad un detenuto italiano, che ha reagito in un modo che ho trovato assai singolare. Dico questo perché, nonostante i dieci anni passati in un carcere italiano, a volte mi trovo in difficoltà a capire certi comportamenti delle persone che ho intorno. La notizia in questione riguardava una protesta messa in atto dai detenuti delle carceri albanesi in seguito ad una circolare del Ministero che riduceva l’orario del cosiddetto "colloquio intimo".
"In tutte le carceri del Paese, dopo aver appreso la notizia, i detenuti hanno cominciato a manifestare la loro contrarietà sbattendo le pentole contro le sbarre e chiedendo il ripristino del vecchio orario. Il colloquio intimo è un istituto ereditato dal precedente regime comunista e che, in questi quindici anni di liberismo, è riuscito a sopravvivere e non è mai stato messo in discussione, eccetto questa modifica dei tempi che, secondo il governo, è stata imposta dal sovraffollamento, e quindi le stanze dell’intimità costruite per ospitare i condannati e le loro famiglie non bastano più per tutti. Da qui la decisione di portare la durata dei colloqui intimi a otto ore invece delle sedici previste precedentemente. Quando ho finito di tradurre l’articolo, il mio compagno detenuto mi ha detto: "Che schifo, io di fronte alle guardie non farei mai all’amore con mia moglie", lasciandomi perplesso cucinare qualcosa per pranzare insieme, e vi è anche un letto matrimoniale in modo che se si vuole si può fare all’amore.
Questo tipo di colloquio in Italia non esiste e, mentre spero che qualcuno in questo Paese capisca il sentimento di scontento dei detenuti albanesi per riflettere sull’importanza dell’amore in carcere, mi ritrovo a discutere con detenuti che, per un senso di pudore, di amore in carcere non ne vorrebbero nemmeno parlare. Di certo non condividerò mai questo modo di pensare, poiché io invece dell’amore voglio proprio parlare, perché ritengo che dietro la mancanza dell’amore in galera si nascondono tormenti e si alimentano frustrazioni che non covano nulla di rieducativo, ma fanno soltanto danni. La questione secondo me sta tutta nel modo in cui si affronta da anni il problema degli affetti per i detenuti. C’è chi vede gli affetti come una necessità spirituale oppure come un bisogno strettamente sentimentale, altri li considerano come qualcosa che il condannato perde insieme alla sua libertà. Personalmente, vedo l’affetto come un miscuglio di sentimento d’amore e di necessità carnale, di cui l’uomo ha un continuo e fondamentale bisogno, indipendentemente dal posto in cui si trova. Sono sicuro che, se interpellate, molte persone daranno più importanza ai sentimenti, e forse diranno che se non ci sono i sentimenti della necessità carnale si può fare benissimo a meno.
Con molta probabilità anch’io se dovessi fare una mia "graduatoria" di quello che conta di più per me, tra il sentimento d’amore per una donna e il sesso, sceglierei naturalmente di mettere al primo posto il sentimento, però in un quadro generale delle mie esigenze immediate, di quello di cui mi hanno privato in anni di galera, se dovessi fare la stessa graduatoria, metterei il sesso prima di tutto, e se affermassi che mi basta il sentimento, direi una bugia". "Quello che non capisco di alcuni detenuti italiani è che, finché sono in carcere, rifiutano di avanzare qualsiasi richiesta di apertura verso una norma che permetta di fare sesso con la propria partner. Però appena si esce in permesso premio, la prima cosa che tanti fanno è proprio cercare una donna per fare all’amore. C’è anche chi ovviamente sogna un amore vero, anzi tutti sogniamo un amore vero, ma secondo me quando uno esce fuori dopo anni di carcere non va a cercarsi, perché non ne ha il tempo, una donna di cui innamorarsi, va a cercarsene una per recuperare il tempo perso, in pratica per fare sesso e basta. E questo vale anche per me. Sarei solo ipocrita, infatti, se dicessi che, se ho aspettato dieci anni prima di poter fare sesso, quando esco dalla galera posso aspettare per altri due o tre o sei mesi, finché trovo la donna giusta, finché trovo l’amore: se dovessi uscire oggi, io non aspetterei la donna giusta. Però il mio non è nemmeno un semplice istinto animale come potrebbe sembrare, perché di sicuro non cerco "un contenitore" in cui infilare il mio cazzo per vedere se funziona ancora dopo dieci anni.
Anzi, mi funzionano le mani così bene che potrei fare altri dieci anni di galera senza un "contenitore", tanto quei pochi secondi di piacere che accompagnano l’orgasmo hanno la stessa intensità, sia che lo raggiunga da solo, e sia che lo faccia nel corpo di una donna sconosciuta". "L’urgenza che esprimo dicendo di pensare al sesso si lega direttamente al danno fisico causato dalla privazione del sesso in carcere. Il contatto fisico con una donna non è un bisogno secondario di cui si può fare a meno, ma è una fondamentale necessità.
Che non si limita soltanto al bisogno di scopare, ma che va oltre a tutto ciò, che risponde a un bisogno bruciante di poter abbracciare, toccare una donna, sentire la sua voce, accarezzare la sua pelle. Anche se si trattasse della prima ragazza rimorchiata al supermercato o di una prostituta, il mio desiderio personale è quello di poterla vedere nuda per qualche minuto, averla lì stesa di fronte a me per ricordarmi com’é fatta una donna. E potrei anche fare a meno di scopare, perché dopo dieci anni di galera, dopo 3650 seghe, non si ha bisogno di scopare, ma si ha bisogno di toccare il corpo di una donna, anche se non è la donna amata. Sarà anche triste, ma io considero questo semplicemente una necessità umana".
"E capisco benissimo le proteste che i miei compaesani portano avanti per riavere tutte le ore di intimità che gli sono state tolte, mentre non riesco a capire l’indifferenza con cui si vive in Italia questo problema, e la totale mancanza di richieste da parte dei detenuti di poter avere degli spazi di intimità, e mi lascia ancora più perplesso questa rassegnazione alla ineluttabilità della norma esistente che non prevede il sesso in carcere. E così, si aspetta solo pazientemente il primo "permesso premio" per "farsi un regalo" e recuperare il tempo perduto tra le braccia della donna amata, e chi non ne ha una, tra quelle di una prostituta".
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