sabato 20 settembre 2008

Riflessioni dopo la rivolta dei migranti nel Cpa di Elmas

Dopo la rivolta dei migranti nel Cpa di Elmas, dopo i quattro casi di tubercolosi che aprono la strada ad un rischioso pericolo di malattie infettive, dopo la protesta dei sindacati di polizia Coisp e Siulp, che denunciano costanti violazioni delle norme sulla sicurezza, mi chiedo quale sia la reale natura del Cpa di Elmas, siamo sicuri che questo centro rispetti gli standard richiesti e previsti negli ordinari Cpa? Siamo sicuri che non sia solo una galera speciale per migranti?

A detta dei sindacati, il Cpa di Elmas, è un ambiente fatiscente e privo delle più elementari norme igieniche, di conseguenza, ne dovremmo dedurre che anche le condizioni di vivibilità della struttura da parte dei migranti siano precarie e difficili. I parlamentari del Pd, Pes, Melis, Schirru e Calvisi, che hanno visitato il centro nei primi giorni di Settembre, non hanno fatto un analisi seria e corretta delle condizioni dei diritti umani e civili dei migranti del centro. Di fatto hanno promosso la funzionalità di questo centro dichiarando che "le condizioni della struttura "sembrano" all'altezza degli standard previsti da altre strutture nazionali".

Questo centro rappresenta solo una galera. Perchè non possiamo legare la dimensione dell'accoglienza e della solidarietà, con la dimensione della restrizione della libertà personale e la limitazione dei diritti dei migranti. Ritengo che il movimento di Cagliari, le associazioni e i singoli cittadini sensibili alla questione dei diritti dei migranti, su questo centro, dovrebbero cominciare un percorso di discussione e analisi critica.

Roberto Loddo

Associazione 5 Novembre "Per i Diritti Civili"

(nell'immagine) Joan Miró "risveglio al mattino"

13 commenti:

Anonimo ha detto...

Roma: mancano agenti per gli Istituti della giustizia minorile



Comunicato stampa, 20 settembre 2008



Mancano gli agenti penitenziari all’istituto minorile di Casal Del Marmo e al Centro di prima accoglienza. Il Garante dei detenuti del Lazio Angiolo Marroni scrive al capo dipartimento della giustizia minorile: "interventi urgenti per garantire i giovani ospiti delle strutture".

Impossibilità di seguire con regolarità le lezioni scolastiche, di praticare sport o di passeggiare, difficoltà a sostenere i colloqui trattamentali con educatori, psicologi e assistenti sociali. È quanto sta accadendo agli ospiti dell’Istituto Penale Minorile di Casal del Marmo e del Centro di Prima Accoglienza del Lazio (che oggi ospita 38 ragazzi e 15 ragazze) a causa della cronica mancanza di agenti di polizia penitenziaria.

Lo segnala il Garante regionale dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni in una lettera inviata all’ex Capo Dipartimento della Giustizia Minorile Carmela Cavallo e alla responsabile del Centro per la Giustizia Minorile per il Lazio, Donatella Caponnetti.

"Già da mesi esiste un grave sottodimensionamento dell’organico di polizia penitenziaria nelle strutture minorili del Lazio - ha detto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - che rende difficile l’adempimento delle mansioni di sorveglianza vera e propria e la possibilità che i giovani detenuti possano svolgere attività ricreative e di recupero sociale".

Gli agenti penitenziari sono oggi 55 (42 uomini e 13 donne) e dovrebbero essere almeno un 30% in più; tale con una carenza di organico che incide sulla funzionalità dell’istituto e sull’operatività degli agenti, gravati di lavoro e responsabilità. Inoltre, le carenze rischiano di creare situazioni di tensione fra gli stessi agenti e i ragazzi.

Una situazione, questa, ancor più delicata se si considera che nell’ultimo periodo Casal del Marmo ha ospitato un numero crescente di detenuti provenienti da altre Regioni per alleggerire il sovraffollamento di altri istituti penali minorili. e ciò determina che quotidianamente agenti di PP siano impegnati in traduzione in Tribunali su tutta Italia incidendo ancora di più sulla carenza di organico e sulla funzionalità interna.

Stessi disagi si registrano anche nel Centro di Prima Accoglienza dove, a fronte di un organico assegnato di 18 unità vi ce ne sono presenti solo 13. Da segnalare che gli ingressi nel Centro di Prima Accoglienza sono aumentati in maniera esponenziale fino ad arrivare a 950 ingressi annui.



Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio

Anonimo ha detto...

Monza: interrogazione sul caso del detenuto legato a un palo



Comunicato stampa, 20 settembre 2008



Interrogazione di Alessia Mosca, deputata del Pd, ai Ministri dell’interno e della giustizia. Per sapere; premesso che: dagli organi di informazione è stata diffusa una fotografia, scattata da un cellulare e diffusa via internet dal Siap, sindacato autonomo di polizia, che mostra un detenuto ammanettato ad un palo all’interno del commissariato di via Romagna, a Monza, a causa della mancanza di celle di sicurezza; in realtà le celle di sicurezza, all’interno della struttura esistono, ma non sono fruibili perché non rispettano le norme, mancano i bagni e le porte si aprono facilmente dall’interno; per non lasciarle inutilizzate, pare vengano usate come deposito-magazzino di marijuana, refurtiva e merce sequestrata.

L’immagine, indubbiamente scioccante e gravemente lesiva della dignità di un essere umano, sia egli libero o detenuto, sicuramente indegna di un paese civile, non può che riportare l’attenzione sull’emergenza legata alle strutture di sicurezza e alle carceri, nonché sul rischio per la sicurezza dei cittadini che può derivare da un tale stato di cose.

Questa grave situazione organizzativa e funzionale, certamente non riguarda solo la realtà di Monza e, mentre da un lato si mette in campo una politica tutta volta alla penalizzazione e alla repressione - vedasi la pressoché totale sostanziale equiparazione tra immigrazione e criminalità - dall’altro non si provvede a rendere adeguate ed efficaci le strutture di sicurezza e carcerarie del nostro paese. Addirittura con la manovra finanziaria di luglio, i fondi per l’edilizia carceraria sono stati decimati, è stato gravemente colpito il reclutamento degli agenti di custodia che si trovano, dunque, a dover sostenere turni massacranti a fronte di retribuzioni assolutamente inadeguate.

Si chiede: quali siano gli elementi a disposizione del Governo sulla vicenda ricordata in premessa e quali iniziative intenda assumere per accertare la reale dinamica dei fatti; quali urgenti iniziative intenda assumere al fine di rimuovere le cause che possano aver portato a tale situazione di degrado e mancanza di rispetto per i diritti di un cittadino trattenuto dagli organi di sicurezza, nonché per assicurare agli agenti dei corpi di polizia condizioni per l’esercizio delle proprie funzioni con professionalità ed efficacia.

Anonimo ha detto...

costruire le nuove carceri vendendo quelle vecchie

di Riccardo Arena



www.radiocarcere.com, 20 settembre 2008



205 carceri. 42.890 posti disponibili. 55.250 detenuti presenti. Totale: 12.360 detenuti in più. 24.063 sono condannati. 14.910 attendono in carcere un primo giudizio. 9.408 devono essere giudicati in appello. 3.884 sono in attesa del giudizio della Cassazione. Totale: 29.500 detenuti sono in misura cautelare.

90 mila: sono le persone che ogni anno entrano nelle carceri per qualche giorno e poi escono. I tecnici lo chiamo "flusso".

28.828 sono le celle delle nostre carceri. Ma di queste solo 4.763 sono a norma. Ovvero sono costruite secondo i canoni dettati dalla legge. L’ordinamento penitenziario varato nel 2000. Le altre no.

Dati. Numeri. Che parlano di sovraffollamento, di strutture inadeguate e di un sistema penitenziario che non funziona. Dati. Numeri. Che sono assai più eloquenti se si calano nella realtà del caso concreto. Nella realtà del singolo carcere.

Per il sovraffollamento, ad esempio, prendiamo il carcere San Vittore di Milano. Ha una capienza regolamentare 700 detenuti. Oggi nel carcere di San Vittore ci sono 1.414 detenuti. Il che significa che in una cella ci sono rinchiusi 10 o 11 detenuti. Lì ammassati per 22 ore al giorno. A San Vittore, come in altre carceri, quando non c’è più spazio nelle celle, sono costretti a far dormire i detenuti per terra o dentro la sala del barbiere. Oppure prendiamo Napoli, carcere Poggioreale. La sua capienza è di 1.380 detenuti. Ora nel carcere di Napoli i detenuti sono più di 2.200. Dentro le celle singole, fatte per un solo detenuto, ce ne stanno in 3. Dentro quelle più grandi ci sono 12 o 13 detenuti.

Quanto alle strutture inadeguate, non c’è da stupirsi se, su un totale di 28.828 celle, solo 4.763 sono a norma. Infatti un numero rilevante delle nostre carceri risale all’800 se non prima. Vecchi conventi, adibiti ad istituti di pena, sistemati nei centri storici delle città. Difficile, se non impossibile, adeguarle ai parametri di detenzione previsti in una legge del 2000.

Un’evidente illegalità, un non rispetto della legge, che forse non si comprende fino in fondo se non si conosce la realtà di una cella dell’800. Buia, sporca, con i muri che trasudano umidità e con i letti arrugginiti. E, dietro a un muretto di 40 cm, la tazza alla turca. Un luogo inadatto per le persone, ma ideale per i topi che infatti lì spesso prolificano.

Sono tante queste strutture bicentenarie. Sono drammaticamente numerose le celle ottocentesche. È estremamente diffuso il degrado descritto. Alcuni esempi: Brescia, Trento, Trieste, Venezia, Belluno, Roma-Regina Coeli, Bari, Palermo e Sassari.

A queste vecchie strutture, si aggiungono le numerose "carceri d’oro". Realizzate negli anni 80, sono chiamate così per via dei processi nati dal giro di tangenti pagate per la loro costruzione. Carceri che, per fare un esempio, sono state consegnate allo Stato prima di essere completate. Carceri che, ancora oggi, non rispettano il dato normativo sulla detenzione.

Se tiriamo le somme, sono veramente poche le strutture carcerarie dove si vive dignitosamente. Sono veramente poche le celle a norma in tutta Italia. 4.763, appunto. È il fallimento del sistema penitenziario. Un sistema che non funziona. Una riforma sulle carceri, anche se complessa, non è più rinviabile. Deve essere però una riforma seria e innovativa. Parametri sconosciuti fino ad oggi.

Il numero dei detenuti si potrebbe ridurre. Si potrebbe ridurre il flusso di quelli che entrano ed escono dopo pochi giorni: i detenuti in stato di custodia cautelare. Questi andrebbero arrestati quando è indispensabile, cosa che evidentemente non avviene se dopo pochi giorni escono. Il sistema delle pene andrebbe riformato, prevedendo sanzioni diverse dalla detenzione in carcere, ma ugualmente punitive. Ma è altrettanto vero che si deve intervenire sull’edilizia penitenziaria.

È evidente che servono nuove carceri. I nuovi istituti dovrebbero essere costruiti considerando chi devono ospitare. Detenuti pericolosi e meno pericolosi, detenuti che scontano una pena o detenuti in attesa di giudizio. È paradossale che quest’ultimi, presunti non colpevoli, sono custoditi nella stessa cella con chi è condannato. Sarebbe opportuno invece pensare a strutture diverse per chi è in misura cautelare e non è persona violenta, ovvero socialmente pericolosa.

Per queste persone, e non sono poche, si potrebbe pensare non tanto a carceri, ma ad una sorta di "alloggi sicuri". Luoghi sorvegliati che impediscano la fuga e l’inquinamento delle prove. Strutture magari già esistenti nelle città, come le vecchie caserme. O di facile realizzazione, perché più economiche di un carcere, e di minor impatto ambientale.

Per chi è condannato, serve invece pensare a strutture modellate sulla pena. Sulla tipologia di reato commesso. È indubbio che nelle carceri, come nella vita, ci sono persone che non cambieranno mai. Ma è altrettanto vero che tanti sono i detenuti che vogliono una possibilità di scelta. Per queste persone servono carceri-fabbrica, carceri-scuola. In Italia ci sono già queste strutture "sperimentali". Bollate, la Gorgona. Danno ottimi risultati e costano meno. Ma, come spesso accade in Italia, ciò che funziona rimane un esperimento.

Indubbiamente, per tali riforme serve non solo serietà e innovazione, ma anche soldi. Risorse che mancano nelle casse dello Stato, ma che possono essere recuperate dai beni dello Stato.

La formula non è complessa. Vendere le vecchie carceri, che stanno nei centro storici delle città, e che hanno un immenso valore sul mercato immobiliare. Con il ricavato realizzare le nuove e diverse strutture carcerarie.

Un esempio. Roma, carcere di Regina Coeli. Costruita nel 1.654, è a Trastevere, nel "core de Roma". Negli ultimi anni ci è costata per lavori di manutenzione straordinaria 21 milioni di euro. Ogni anno ci costa di manutenzione ordinaria 14 milioni di euro. È grande circa 34.000 mq. Valore sul mercato 180 milioni di euro. Una cifra più che sufficiente per realizzare tre strutture diversificate sul territorio. "Ma ci voglio anni per costruire un carcere e costa molto!". È l’antiquata e conveniente bugia che ci ha portato alle condizioni delle carceri di oggi.

Anonimo ha detto...

il "braccialetto", un’idea del 2001 che non convince

di Patrizio Gonnella
(Presidente Associazione Antigone)



www.radiocarcere.com, 20 settembre 2008



Il braccialetto elettronico non consentì al centro-sinistra di vincere le elezioni politiche del 2001. Fu infatti pensato dagli allora ministri degli interni Bianco e della giustizia Fassino quale arma di propaganda da inserire nel pacchetto sicurezza approvato pochi mesi prima della scadenza elettorale. Sin da allora il centro-sinistra rincorreva affannosamente e scompostamente la destra sul tema della sicurezza.

La Gazzetta Ufficiale del 15 febbraio 2001 pubblicava il decreto che descriveva le modalità di installazione del sistema di controllo a distanza delle persone sottoposte alla misura cautelare degli arresti domiciliari e alla detenzione domiciliare. In questi sette anni e mezzo il braccialetto non è mai stato usato in modo sistematico. La macchina del controllo elettronico nei confronti di coloro che sono agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare non è mai partita. Ciò è accaduto per almeno due ragioni: 1) i costi eccessivi della strumentazione i quali non sono compensati dalla riduzione dei costi del personale di polizia (visto che i poliziotti sono comunque impegnati nel controllare il funzionamento degli strumenti di controllo e che comunque è impossibile risparmiare licenziando agenti di polizia o carabinieri); 2) la contrarietà delle forze dell’ordine che non si fidano di un controllo spersonalizzato e asettico.

Oggi i controlli sono affidati alla polizia e al servizio sociale. Nel primo semestre 2008 su 3036 persone in detenzione domiciliare (dalla libertà, dal carcere e in detenzione domiciliare provvisoria) solo 11 hanno subito una revoca per commissione di reato. Si dirà: questo accade perché il detenuto ristretto nelle mura domestiche non è di fatto controllato e nessuno scopre il reato che commette. Potrà pure essere così. È però bene sapere che il detenuto agli arresti domiciliari o in detenzione domiciliare continuerà a non essere scoperto anche indossando la cavigliera elettronica visto che quest’ultima segnala spostamenti fisici e non l’invio di lettere, mail, telefonate, incontri a casa con terze persone pregiudicate, spaccio casalingo di droghe o contrabbando di armi domestico. Per prevenire ciò ci vuole il controllo umano.

La sicurezza, quella vera, non avrà benefici. Al massimo si eviterà qualche imputazione per il reato di evasione. L’altro tema è quello del sovraffollamento. È a tutti evidente, come l’indulto ha ampiamente dimostrato, che per contenerlo sono necessarie risposte strutturali e politiche organiche. Per chi non crede all’orgia repressiva e all’adozione di un massiccio programma di edilizia penitenziaria, la via maestra resta quella della depenalizzazione e della decarcerizzazione.

Per ridurre il numero degli ingressi bisognerebbe avere il coraggio di abolire (e non solo riformare) immediatamente le leggi ex Cirielli sulla recidiva e Bossi-Fini sull’immigrazione. A seguire andrebbe tolta di mezzo la legge Fini-Giovanardi sulle droghe, i cui effetti si andranno a dispiegare nei prossimi anni. Inoltre bisognerebbe rimettere in moto la macchina della esecuzione penale esterna. Oggi circa 10 mila detenuti devono scontare un residuo pena inferiore ai tre anni.

Buona parte di questi (ossia quelli non inclusi nell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario) è già nelle condizioni per andare in misura alternativa. Eppure è chiusa in galera. Ciò accade perché le misure alternative sono decise dalla magistratura di sorveglianza sempre più negativamente condizionata dal pessimo clima culturale e sempre meno legata agli insegnamenti dei suoi padri storici (Igino Cappelli, Giancarlo Zappa, Sandro Margara).

In ogni caso, salvo non si modifichi la legge oggi in vigore, la magistratura, con o senza cavigliera, conserverebbe la discrezionalità di azione e nessun politico potrebbe costringerla a mandare a casa i detenuti in prossimità della fine della pena.

Precari in Linea ha detto...

il piano di Alfano per le carceri? è fumo negli occhi

di Gennaro Santoro (Antigone)



La Rinascita, 18 settembre 2008



Il piano svuota carceri è l’ennesima manovra demagogica dell’attuale governo. Si getta fumo negli occhi con provvedimenti in gran misura già esistenti e già rilevatisi inefficaci. O, quanto meno, di misure che non riescono nell’immediato a risolvere il dramma del sovraffollamento.

Sono 16 mila i detenuti in più rispetto la capienza regolamentare mentre secondo i dati del Ministero il sedicente piano svuota carceri interesserebbe 7.000 persone. Dunque, se tutto va bene, le carceri continuerebbero ad avere un’eccedenza umana di 9.000 unità in più. Senza tener conto del fatto che a causa delle leggi liberticide e riempi carcere targate Bossi-Fini, Fini-Giovanardi ed ex Cirielli, i detenuti crescono di mille unità al mese.

Entrando nel merito delle proposte, l’espulsione degli stranieri con pena residua ai due anni, prevista dall’art. 16 della Legge sull’immigrazione, è quasi del tutto inattuata a causa della difficoltà incontrate nell’identificazione delle persone e nella stipula di accordi con i paesi d’origine.

Riguardo i braccialetti elettronici, gli stessi già sono stati sperimentati con alti costi e pessimi risultati negli anni passati. Tuttavia, tale proposta potrebbe essere valutata positivamente come misura di lungo periodo volta a ridurre il ricorso al carcere come principale sanzione penale. Dunque, la proposta del Ministro Alfano non risolve l’emergenza carcere.

Sappiano anche che se sciaguratamente dovesse essere approvata la contro-riforma dell’ordinamento penitenziario presentata dal presidente della commissione Giustizia del Senato, Filippo Berselli, le galere scoppierebbero. Eliminare gli sconti di pena della liberazione anticipata significa tornare alle carceri dei primi anni Settanta, alle rivolte, alle violenze, all’insicurezza quotidiana.

Intanto, aldilà delle proclamazioni di facciata, il Governo nell’ultima manovra economica triennale taglia di circa 200 milioni di euro i fondi destinati al Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria. Come a dire, tutto fumo e niente arrosto.

Se davvero si vogliono risolvere i problemi del pianeta carcere bisogna innanzitutto adottare provvedimenti quali la diminuzione delle fattispecie penali, la velocizzazione dei processi (ad oggi circa il 50% dei detenuti è ancora in attesa di giudizio), l’abrogazione delle leggi riempi-carcere, l’ampliamento delle misure alternative (che abbattono la recidiva più del carcere).

E bisogna finalmente introdurre la figura del garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, perché nel carcere e nelle altre istituzioni totali i diritti umani sono calpestati non solo a causa del sovraffollamento ma anche perché non vi è un organo di garanzia del rispetto dei diritti minimi della persona - proprio per questa ragione come associazione Antigone abbiamo istituito il Difensore civico dei detenuti.

Ma si tratta di provvedimenti non a buon mercato, ovvero, che non regalano consensi, voti. È avvenuto così che alcune forze del centro sinistra, consapevoli di tale principio, hanno cominciato a rincorrere la destra sul tema della sicurezza, contribuendo in tal modo ad alimentare una percezione di insicurezza totale.

In questo clima culturale di paura e tolleranza zero diviene ancora più difficile proporre alternative al pan penalismo proprio delle destre. Perché anche chi fino a qualche anno fa prestava ascolto ad analisi scientifiche sull’andamento dei crimini in Italia (dal ‘90 ad oggi il numero dei crimini commessi è sostanzialmente invariato), sulle ricette per risolvere la questione criminalità senza demagogie e in maniera rispettosa delle pre-regole di uno Stato di Diritto, oggi è disorientato perché è la stessa classe dirigente di centro sinistra (e talvolta della sinistra) a sponsorizzare una concezione della sicurezza e della giustizia propria della destra.

Avviene così che Veltroni critichi il piano svuota carceri del governo perché è un indulto mascherato (!), e non già perché si tratta di misure demagogiche, inefficaci e non garantiste dei diritti minimi della persona (ad esempio, perché si imporrebbe una misura invasiva come il braccialetto elettronico anche senza il consenso dell’interessato).

In questo panorama, l’unico "supporto" per chi, come l’associazione Antigone, si batte per le garanzie del sistema penale e crede ancora che sicurezza e giustizia debbano rispettare i principi fondamentali dello Stato di diritto, è rappresentato dalle prese di posizione forti assunte dalla Caritas, Famiglia Cristiana e da altri organismi certamente non di sinistra. Ed è con questi soggetti che la Sinistra (quella vera) deve provare, con pazienza, a spazzare la coltre di odio e di intolleranza che ha invaso l’animo degli italiani.

Anonimo ha detto...

in carcere 2.536 donne, con 70 bambini sotto i 3 anni



Ansa, 22 settembre 2008



Le donne in carcere in Italia sono 2.536: oltre un terzo in Lazio (435) e Lombardia (570). I bambini al di sotto di 3 anni che vivono negli istituti di pena oscillano invece tra i 70 e gli 80. La maggior parte sono figli di immigrate. Il quadro sulla popolazione carceraria femminile è stato illustrato a Viterbo, durante un convegno sull’assistenza sanitaria ai reclusi. Proprio oggi il ministro della Giustizia Angelino Alfano ha annunciato che sarà approvata una riforma dell’ordinamento carcerario per "far scontare la pena alle mamme in strutture dove non possano scappare, ma che non facciano stare in carcere il bambino". "Un bambino - ha aggiunto - non può stare in cella. Non importa di chi sia figlio, ciò che importa è che è un bimbo".

Anonimo ha detto...

presto sperimentazione delle "stanze dell’affettività"



La Repubblica, 22 settembre 2008



Sarà soltanto una stanza, ma per i detenuti, quasi un pezzo di cielo. Il carcere di Pianosa in Toscana, sarà la prima struttura detentiva italiana destinata a sperimentare quelle che nei documenti ufficiali vengono chiamate "stanze dell’affettività", ovvero i posti dove i detenuti "potranno avere momenti di intimità con i propri partner".

Lo ha annunciato a Pisa il dirigente regionale del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria (Dap) Maria Pia Giuffrida, nel corso della presentazione del libro "Lisistrata incatenata. Dalle Mantellate ai giorni nostri. Mezzo secolo di sopravvivenza carceraria al femminile".

Il problema della sessualità in carcere, già affrontato in molti paesi occidentali, vede l’Italia in forte ritardo dopo che, circa dieci anni or sono, l’allora Direttore Generale del Dap Michele Coiro, dette disposizione a tutti i direttori dei penitenziari, di predisporre spazi destinati a questa funzione.

Il carcere di Pianosa ospita, attualmente, soltanto alcuni detenuti in regime di semilibertà, ma già nei mesi scorsi era stato annunciato, con l’esponenziale crescita della popolazione detenuta, il suo totale recupero.

Maria Pia Giuffrida, ha auspicato anche la realizzazione, non in diverse parti del Paese, Toscana compresa, di strutture Icam (Istituto di custodia attenuata per detenute madri) la cui prima, positiva esperienza, è stata fatta dalle detenute madri di San Vittore, trasferite, da oltre un anno in una sorta di Casa famiglia alle porte di Milano.

Il volume "Lisistrata incatenata" raccoglie le testimonianze di diverse donne passate dagli istituti di pena, le loro paure, i sentimenti, le necessità. Con una prefazione di Adriano Sofri è firmato dal giornalista Doady Giugliano e dal professor Francesco Ceraudo, nominato dall’assessore alla sanità Enrico Rossi direttore del dipartimento regionale al diritto alla salute in carcere.



Da "Il Tirreno"



La sessualità in carcere non deve più essere in tabù e anzi in Toscana, per la precisione a Pianosa (e in subordine pure a Gorgona), vi sono le condizioni per avviare la sperimentazione delle cosiddette "stanze dell’affettività", sul modello di quanto avviene in larga parte dei paesi europei, Albania compresa. L’argomento è stato rilanciato a Pisa durante la presentazione del libro "Lisistrata incatenata", sulla condizione delle donne detenute, curato da Doady Giuliano e Francesco Ceraudo.

Ed è proprio Francesco Ceraudo, presidente nazionale dei medici penitenziari e direttore del centro sanitario del carcere Don Bosco di Pisa, a sollevare il problema: "È estremamente positivo cominciare a parlare in termini concreti di sessualità in carcere, tema di cui si discute da anni, ma che da noi non ha mai trovato una giusta applicazione - ha detto -. È significativo che una prima sperimentazione di "stanze dell’affettività" avvenga proprio in Toscana, la regione in cui nasce il primo dipartimento regionale per la salute in carcere".

Un’idea che Carlo Mazzerbo, direttore del carcere di Porto Azzurro e, quindi, di Pianosa, dimostra di condividere, anche se con un distinguo: anziché di "stanze per l’affettività", all’amministrazione carceraria piace parlare di "luoghi dell’affettività".

Proprio come al suo superiore Maria Pia Giuffrida, provveditore regionale del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che vuol rilanciare Pianosa "come luogo dell’affettività e mi riferisco soprattutto alla possibilità di accogliere donne detenute con bambini, sulla scia di quanto avviene in altri paesi".

Secondo Giuffrida, le detenute sull’isola potrebbero provvedere direttamente alla cura dei loro figli fino a tre anni. Dai tre ai 14 anni, i ragazzi raggiungerebbero le loro mamme solo nei periodi festivi. Ma l’esperimento, nel caso desse buoni frutti, potrebbe essere allargato ai nuclei familiari interi.

Roberto Loddo ha detto...

Pianosa: "stanza dell’affettività", esperimento unico in Italia



Il Tirreno, 23 settembre 2008



"Reintegrare i detenuti nella società è fondamentale. È per questo che portiamo avanti diversi progetti interessanti". Carlo Mazzerbo è direttore del carcere di Porto Azzurro, dal quale dipende anche Pianosa.

Ed entrambe le strutture sono all’avanguardia per la rieducazione dei detenuti. A dimostrarlo l’annunciato progetto per gli "spazi dell’affettività" a Pianosa - spazi dove i detenuti in regime di semi-libertà possono vivere con le famiglie - e quello per i corsi da arbitro nella struttura dell’Elba. In tutti e due casi si tratta di piani e progetti che, nel loro genere, farebbero da apripista in Italia.

A far discutere sarà soprattutto il progetto - ancora in fase embrionale - per fare di Pianosa un luogo dell’affettività carceraria, valorizzando così i progetti per l’isola dove adesso i detenuti lavorano in regime di semilibertà. "Sarebbe interessante - spiega il direttore della casa circondariale - che i detenuti non solo lavorassero per mantenere l’isola pulita, per sviluppare il vigneto con la cooperativa San Giorgio o portare avanti il ristorante.

Per loro sarebbe fondamentale poter vivere con mogli e figli per periodi più o meno lunghi seguiti da pedagoghi ed educatori. In questo modo il loro reinserimento sarebbe più efficace". Ma il direttore specifica che le questioni da valutare, prima che il progetto possa diventare reale, sono ancora molte.

Tra l’altro il direttore del Dap toscano Maria pia Giuffrida ha parlato anche della possibilità di portare donne detenute a Pianosa. Qualunque sia la portata del progetto Mazzerbo nega comunque che al momento esistano progetti per riaprire il carcere di Pianosa come una struttura per ospitare rom o immigrati illegali o addirittura i sottoposti al 41bis.

Inizierà invece ufficialmente sabato prossimo presso l’istituto carcerario di Forte San Giacomo il corso per arbitri di calcio indirizzato ai detenuti. L’iniziativa è stata proposta dall’Università delle Tre Età e realizzata grazie alla sensibilità della direzione della Casa di Reclusione. "Abbiamo fatto una specie di sondaggio fra la popolazione carceraria - ha detto la responsabile dell’Uni 3, Lucia Casini - per sapere quali sono gli interessi delle persone che si rivolgono alla nostra istituzione.

È uscito fuori che piacciono i corsi di musica e quelli per diventare arbitri di calcio". È stato allora sufficiente mettere in moto la sezione arbitri della Toscana, la Figc di Piombino, insieme ai rispettivi organi provinciali del Coni per vedere i primi risultati dell’iniziativa. "L’esperienza che si tenta all’interno del reclusorio elbano - dice il presidente provinciale del Coni, Gino Calderini - è la prima che si verifica nel nostro paese.

È chiaro che le istituzioni pubbliche, ma soprattutto quelle dello sport, seguono con estremo interesse l’esperimento che si conduce a Porto Azzurro, nell’ottica di vederlo successivamente esteso alle altre carceri italiane". "Lo sport sta cambiando volto - aggiunge il presidente provinciale - più del 60% per cento degli Italiani lo praticano, questo significa che è diventato l’emblema e l’occasione migliore per i nostri connazionali per mantenersi in forma. Ma non solo.

Lo sport non è solo questo: ci sono anche i valori che vogliamo sempre più propagandare e diffondere, come quelli della partecipazione, della coesione sociale e il reinserimento nella società. Sono questi i temi che difendiamo e perseguiamo accogliendo la proposta dell’Uni.3 di attivare corsi all’interno del carcere di Porto Azzurro".

L’Uni 3 è dagli anni Novanta che opera all’interno della Cittadella carceraria ed è promotrice di corsi di carattere culturale, sociale e ora anche sportivo. Il 27 settembre sarà il primo giorno in cui si terranno le lezioni per arbitri; saranno 8 in tutto e termineranno a novembre.

Roberto Loddo ha detto...

lo slogan è uno "sfruttare, criminalizzare, espellere"



Melting Pot, 23 settembre 2008



I volontari al Cie di Via Mattei a Bologna, per insegnare l’italiano in convenzione con l’Università. Il processo di umanizzazione dei Centri di Identificazione ed Espulsione, già Centri di Permanenza Temporanea, è stato completato a Bologna. Con l’aiuto delle associazioni e dei volontari.

Dietro alle sbarre, con un decreto di espulsione in tasca, è ora possibile per i migranti detenuti nel carcere di Via Mattei imparare l’italiano, eseguire attività laboratoriali di bricolage, intraprendere vertenze per il recupero crediti sul lavoro, rivolgersi ad un’associazione di tutela dei diritti delle donne e avvalersi dei mediatori culturali. Il tutto in una stanza con banchi cementati al pavimento, in un’aula chiusa a chiave e sotto il controllo delle telecamere. A poche decine di metri ci sono le ronde dei militari con il mitra che impediscono evasioni e rivolte.

Gli interventi sono coordinati dal Progetto Sociale della Misericordia in collaborazione con Cgil (che fornisce anche gli insegnanti volontari per i corsi di italiano in tirocinio con l’Università di Bologna), con alcuni avvocati che gestiscono lo Sportello legale e con l’associazione SOS Donna, nell’ambito di un Protocollo con il Garante delle libertà per i detenuti. Per un migrante avere la fortuna di incontrare simili opportunità di emancipazione e di integrazione promossi con spirito di cooperazione e di solidarietà proprio in un CIE potrebbe sembrare per certi versi una beffa, o perlomeno un paradosso, dal momento che proprio nei CIE si suggella il suo status di persona indesiderata, di corpo da espellere ad ogni costo, anche spendendo parecchi soldi pubblici.

I referenti del progetto sociale dichiarano di agire nell’ottica della "riduzione del danno", ossia per cercare di alleviare le sofferenze, lo sconforto e la desolazione della reclusione in un luogo costruito come un carcere di massima sicurezza, presidiato giorno e notte dai militari dell’esercito. Dichiarano anche che le nuove attività "sono anche un deterrente per comportamenti auto ed etero aggressivi".

Nella presentazione sulla stampa locale (Il Domani di Bologna del 23/9/2008) colpisce l’atteggiamento buonista che anima l’intervento, ma certo non può non trasparire soprattutto l’ipocrisia di un simile progetto, che omette di affrontare il nodo centrale della detenzione amministrativa, ossia perché sia possibile recludere come criminali che debbano scontare una condanna persone che sono invece vittime delle leggi comunitarie e nazionali, che le escludono dalla categoria dei migranti regolari, nonostante in Italia lavorino duramente nei cantieri, nelle botteghe degli artigiani, nei capannoni industriali.

Come è possibile conciliare l’ingiustizia agita sulle vite di queste donne e uomini dal sistema di esclusione e di marginalizzazione rappresentata dal centro di detenzione per migranti con il conforto e il servizio offerto da operatori umanitari e volontari? In realtà è proprio questo lo scopo dei progetti di umanizzazione dei Centri di detenzione o di "riduzione del danno": lenire il rimorso, placare le coscienze, confondere la crudeltà di un sistema che sfrutta, criminalizza, espelle. L’Italia non vuole i clandestini, ma se ci sono li mette al lavoro e li sfrutta, approva leggi perché restino clandestini e poi li insulta, li criminalizza, inventa reati per aumentarne la colpa e spogliarli di ogni residuo di dignità e costruisce carceri speciali in cui eseguire l’estrema punizione, ossia l’espulsione. Poi chiama i volontari per insegnar loro l’italiano prima di dargli un calcio nel sedere.

Dopo dieci anni di maledetta presenza dei CPT nei nostri territori, ridurre il danno dei centri di detenzione per migranti significa normalizzare il confinamento e giustificare il diritto parallelo per gli immigrati. Accettare l’intervento umanitario significa rinunciare a reclamare il diritto ufficiale.



Redazione Melting Pot Bologna

Roberto Loddo ha detto...

stranieri a Poggioreale chiusi nelle "sezioni-ghetto"

di Achille Della Ragione



www.napoli.com, 23 settembre 2008



Se gli istituti di pena italiani sono superaffollati ciò è dovuto alla massiccia presenza di stranieri, che costituiscono circa un terzo della popolazione carceraria. Oggi si è ritornati, dopo appena due anni di respiro, alla situazione precedente all’approvazione dell’indulto con 61.000 presenze a fronte di una capienza di 43.000 posti.

A Poggioreale gli stranieri sono stipati in padiglioni e celle dedicate a loro, divise tenendo conto delle diverse lingue e nazionalità. I gruppi più importanti sono otto, i più numerosi rumeni ed albanesi, di conseguenza è difficile poter dialogare con un immigrato od uno zingaro, se non in rare occasioni. Nel mio percorso ne ho incontrato una decina e tutti mi hanno descritto condizioni allucinanti di convivenza ben più degradate di quelle dei loro paesi di provenienza, da noi ritenuti terzo mondo, dimenticando che noi viviamo, senza rendercene conto, una situazione da quarto mondo e non solo in via Stadera.

Tre di questi forestieri li ho conosciuti nelle vesti di lavoranti nel padiglione ospedaliero San Paolo. Tra questi un argentino che scontava una lunga pena e nel portare le cibarie faceva il bello ed il cattivo tempo, ma bastava offrirgli una sigaretta per avere le pietanze migliori; un polacco, un giovane molto bello dagli occhi azzurri e profondi, anche lui vivandiere, con fratelli e sorelle sparpagliati in mezza Europa, da anni senza vederne alcuno, condannato per rapina ed apparentemente un bravo ragazzo. Per qualche sigaretta ti lavava la stanza e disinfettava il bagno; sarebbe potuto divenire un ottimo cameriere, ma la lunga permanenza a Poggioreale lo aveva reso inutilmente cattivo e quando per scherzo gli proposi, se una, una volta libero, volesse venire a servizio nella mia villa o presso la casa di qualche mio amico, mi rispose che non poteva, perché appena fuori, per vendicarsi, voleva uccidere tutti gli Italiani.

Alì, il marocchino, che pregherà Allah per la mia liberazione, faceva il piantone, una figura tra l’inserviente ed il paramedico alla buona: il suo compito era quello di aiutare i detenuti malati più gravi nelle pulizie personali e di spingere le carrozzine degli invalidi, infatti nel padiglione San Paolo molti detenuti sopravvivono sulla sedia a rotelle. A volte faceva straordinari pagati sotto banco a sigarette, la valuta corrente, lavando a terra nelle celle o portando di nascosto del ghiaccio ai pochi privilegiati proprietari di una borsa termica.

Altri due forestieri ho avuto modo di incontrarli nella camera d’attesa per parlare con gli avvocati o i magistrati, un vezzoso locale di pochi metri quadrati, sudicio da fare vergogna con negli angoli gli esiti remoti e solidificati di impellenti bisogni corporali liquidi emessi in tempi lontani; in grado(pura illusione) di contenere per ore decine di persone, mentre la porta con le sbarre veniva sbattuta senza pietà ad ogni entrata ed uscita di una persona dalla stanza, da far tremare le stanche mura, ed una seconda di legno, del tutto inutile se non a togliere il respiro agli sventurati lì rinchiusi e ad aumentare a dismisura caldo ed umidità dell’aria, sbattuta con pari violenza e malcelata rabbia.

Il primo, un peruviano dagli occhi a mandorla, fu in mia presenza artefice di un episodio esilarante. L’agente di custodia chiamò un nome apparentemente cinese, tipo Sing Tia Ping e scrutando tra i volti patibolari degli astanti chiaramente di ascendenza spagnola o saracena, stabilì che fosse lui l’interessato e lo condusse dal giudice, il quale cominciò l’interrogatorio e solo dopo un quarto d’ora si accorse dello scambio di persona e fece ritornare il malcapitato in cella, dove fu costretto a sorbirsi i rimbrotti di chi aveva commesso il madornale errore.

In un’altra occasione nello stesso luogo fatale ebbi modo di parlare con uno slavo che mi confessò di essere imputato per rapina a mano armata per il solo fatto di essersi trovato nei pressi dell’accaduto. Mi raccontò tutto eccitato di essere stato sottoposto all’identificazione su foto segnaletica senza essere riconosciuto, ma nel confronto all’americana, uno dei presenti alla rapina lo aveva indicato agli agenti, mentre, a suo dire, gli altri due avevano indicato persone diverse. Era naturalmente difeso da un legale d’ufficio, che si era dimenticato persino di presentare istanza al Riesame.

Gli ultimi stranieri saranno i cinque cingalesi, vittime di uno scambio di persona che mi accompagneranno mestamente al momento delle mie dimissioni… avvenute come vedremo dopo la mezzanotte e mentre io avevo una casa ed una famiglia pronti ad accogliermi, loro discutevano sul luogo dove avrebbero trascorso la notte ,naturalmente all’addiaccio.

Alcuni politici propongono sbrigativamente, per diminuire la pressione nelle carceri di inviare gli stranieri condannati a scontare la pena nei paesi di origine. Mi sembra una idea balzana non degna di uno Stato desideroso di onorare la sua sovranità, ma altre soluzioni vanno cercate con impegno per il sovraffollamento cronico non permette alcun piano di vivibilità ed a pagare sono sempre e soltanto i detenuti.

Poggioreale oltre ad essere tra i più degradati penitenziari europei è da tempo crocevia di razze e culture diverse; tra le sue impietose mura si ascoltano e si alternano calorosi idiomi e dialetti diversi, europei ed orientali, un flebile e caricaturale ricordo di una Napoli per secoli indiscussa capitale delle arti e della convivenza, declassata da tempo a malinconica capitale della spazzatura materiale ed umana.

Roberto Loddo ha detto...

Gonnella; rimpatrio di detenuti stranieri non risolve



Apcom, 23 settembre 2008



"Rimpatrio dei detenuti stranieri? "Non si risolve il problema". Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone per i diritti dei detenuti, ai microfoni di Econews commenta la misura proposta dal ministro Alfano sul trasferimento dei detenuti stranieri in patria. "Mi chiedo - dice - perché non sia stato già fatto, visto che la Bossi-Fini lo prevede. Ovviamente, perché sono difficili gli accordi con i paesi d’origine".

"Esiste dunque una difficoltà tecnica. Oltre però a questa difficoltà, ho due obiezioni, una di tipo giuridico e l’altra di tipo culturale. Quella giuridica è questa - spiega - non vedo perché un italiano e uno straniero condannati alla stessa pena per lo stesso reato debbano scontare due pene diverse. Quella culturale, invece, è che vedo tanta demagogia e un rischio di deriva razzista, come se tutto fosse colpa degli immigrati. Si legittimano sentimenti di rabbia e di odio che la politica dovrebbe controllare e non alimentare".

"Mi auguro - prosegue Gonnella - che non ci sia l’intenzione di rispedire i detenuti nei paesi d’origine, se sono a rischio di tortura o di pena di morte, o di persecuzione per motivi politici. Per il sovraffollamento delle carceri - conclude - il trasferimento in patria sarebbe una misura tampone: entrano mille detenuti al mese, se ne facciamo uscire tremila è un problema risolto per tre mesi. Spero invece che ci sia la voglia di mettere mano alle leggi che producono carcerazione senza produrre sicurezza, dunque alla legge sull’immigrazione, ossia che si declandestinizzi la vita delle persone, e alla legge sulle droghe, ossia che si decriminalizzi la vita dei tossicodipendenti. Avremo meno detenuti e avremo una società più pacificata. Ricordo che più welfare significa meno prigione e meno reati".

Roberto Loddo ha detto...

cresce "voglia di ordine", Italia come una caserma?

di Michele Ainis



La Stampa, 23 settembre 2008



L’Italia come una caserma? Lo fa temere una litania di fatti, che stanno rovesciando molte nostre abitudini sociali. Te n’accorgi alla partita di pallone, con i divieti di trasferta decretati dal ministro Maroni, e con la tolleranza zero negli stadi. Nelle relazioni con domestici e badanti, da quando sempre Maroni espelle gli immigrati a brutto muso, smantella i campi nomadi, confisca gli appartamenti in affitto ai clandestini.

A scuola, dopo il ritorno del 7 in condotta stabilito dal ministro Gelmini. Al mercatino, perché il ministro Scajola ha dichiarato guerra a chi acquista griffe contraffatte. Camminando nei quartieri periferici, dove il ministro La Russa ha inviato ronde di soldati. In fila allo sportello, dal giorno in cui il ministro Brunetta ha cominciato a licenziare gli impiegati troppo lavativi. Nei rapporti di lavoro, come mostra la mano dura del ministro Sacconi con i sindacati di Alitalia. Perfino nei costumi sessuali, giacché il ministro Carfagna ha deciso d’arrestare su due piedi lucciole e clienti.

Questo atteggiamento muscolare, quest’indirizzo delle maniere forti si propaga per cerchi concentrici, come l’onda sollevata da un sasso sulla cresta del lago. Ha origine in un atto del governo, viene poi subito emulato da tutti gli altri apparati dello Stato. Dalla polizia stradale, che ha iniziato a prendere sul serio le norme contro l’alcolismo. Dalla magistratura, che senza l’altolà di Alfano avrebbe processato la Guzzanti per aver spedito all’inferno il Santo Padre. Da 8 mila sindaci travestiti da sceriffi, che in nome del decoro urbano proibiscono l’accattonaggio (Assisi), il tramezzino in pubblico (Firenze), le massaggiatrici in spiaggia (Forte dei Marmi), la sosta in panchina per più di due persone (Novara), le effusioni in auto (Eboli), le bevande in vetro nelle ore serali (Genova). Ma il giro di vite risponde a una domanda ormai corale da parte di chiunque sia investito di qualche responsabilità sulla nostra vita collettiva: è un ritornello, un tic. L’ultima proposta viene dal presidente della Lega calcio Matarrese, che reclama celle negli stadi, anche perché le patrie galere hanno esaurito i posti a sedere.

Fosse successo appena l’anno scorso, non si sarebbero contati gli scioperi, i sit-in, i presidi antifascisti. Invece tutti zitti, contenti e applaudenti. Il vento dell’autoritarismo gonfia le vele del governo, trasforma la sua navigazione in gara solitaria, senza scogli, senza avversari: l’ultima rilevazione di Euromedia gli assegna un gradimento record del 67,1%. C’è in questo l’unanime condanna del lassismo, che fin qui ci sommergeva.

C’è in secondo luogo il lascito del biennio Prodi, una reazione di rigetto contro la chiacchiera elevata ad arte di governo, contro lo stallo, la non decisione. C’è in terzo luogo il tarlo dell’insicurezza, che rode le nostre esistenze individuali. Insicurezza anzitutto economica, con l’impoverimento della classe media e con l’affamamento dei ceti popolari; ma l’incertezza sul futuro si traduce in un bisogno d’ordine, scarica pulsioni intolleranti, imputa al maghrebino che raccoglie pomodori tutta la colpa se il lavoro è poco. E c’è in quarto luogo l’espulsione dalle assemblee parlamentari delle due sole tradizioni politiche schiettamente antiautoritarie, quella liberale e quella della sinistra libertaria e anarchica. A fare opposizione dura e pura resta Di Pietro, però il suo movimento non ha mai osteggiato l’uso del manganello sulla testa degli indisciplinati.

Questi elementi non bastano tuttavia a spiegare il nuovo clima che ha attecchito sui nostri territori. Perché tale fenomeno s’accompagna a una mutazione antropologica, e perché è stato l’uomo nuovo a generare il nuovo clima, non il contrario. Riecheggia a questo riguardo la lezione d’uno psicologo nazista, Jaensch, poi rilanciata da Fromm e Adorno: ogni governo autoritario ha bisogno di una "personalità autoritaria", ossia d’un popolo zelante verso i superiori, sprezzante nei confronti dei più deboli. Non è forse questa la chiave di lettura del razzismo che soffia come un mantice sulla società italiana?

E non sgorga da qui la doccia di gesso che ha spento le vampate d’odio sulla Casta? Improvvisamente la nostra società si è risvegliata docile, addomesticata. Alla cultura del conflitto, il sale dei sistemi liberali, abbiamo sostituito tutt’a un tratto il culto del potere, delle gerarchie, dell’ordine. E il centro-destra si è limitato a intercettare questo sentimento, a dargli sfogo, sia pure riesumando fossili come le case chiuse o la verga del maestro. L’obbedienza non è più una virtù, diceva nel 1965 don Milani. Infatti: quarant’anni dopo, si è tramutata in vizio.

Roberto Loddo ha detto...

"governance drug", la paura diventa rassicurante

di Franco Marcomini



Il Manifesto, 23 settembre 2008



Vi è un paese in cui si sperimenta su larga scala, l’universo della popolazione, la modificazione dello stato di coscienza attraverso fini tecniche di suggestione ipnotica e di induzione sensoriale, tramite immagini e parole reiterate in modo costante ed ossessionante: il rap delle cifre truccate, il tormentone delle verità ribaltate con precisa scansione temporale. Un gruppo di neuro-scienziati, coadiuvati da garzoni di bottega, travestiti da scienziati ed addetti agli aspetti logistici necessari al laboratorio/scena, si è posto al governo del paese:

Dell’economia si occupa la neuro-ecomics virtuale che approfondisce gli aspetti ludici e gratificanti degli interessi sugli interessi: guadagni tu e sono contento io, potenza dell’illusione scientifica.

Dell’istruzione si narra che si è approntato un programma di neuro-learning a maestro variabile, si dimezza, si raddoppia, si triplica, si toglie. ma soprattutto si sperimenta la fashion way all’apprendimento con divisa consona alla condotta, sobrietà nello stile a garanzia del profitto

Agli interni rifulge la strategia tesa a reificare i contenuti inconsci, interni appunto, proiettando nella diversità la propria insignificanza che persiste attraverso l’espulsione dei minacciosi diversi, complicato, ma efficace

A governare l’esercito ci pensa un ministro esperto in sperimentazione sui processi mnesici, ha sottoposto la popolazione alla straordinaria esperienza della storia alla rovescia: rivedere le vicende storiche attraverso il ribaltamento dei ruoli, sembra aiuti non solo la memoria, ma anche la percezione emotiva nei confronti degli eventi, i carnefici diventano vittime e gli imbecilli, per ingenuità ed in buona fede naturalmente, fulgidi strateghi.

Ma il meglio del programma di governo si esprime nella disseminazione di cifre da capogiro che vanno da 0 a 250.000, a scansione variabile, a seconda del giorno e del target per rappresentare sempre la stessa realtà. Le strade insanguinate sono subito sgombre da pericoli, la droga imperversa senza consumatori, gli spacciatori riempiono le carceri svuotandole, la droga è sconfitta dalla fermezza inerme, l’alcol è vietato e giustamente promosso, i genitori possono stare tranquilli vivendo terrorizzati, un nuovo clima fiducioso si instaura nelle famiglie basato sul sospetto, il braccialetto incatena liberando, ci si arricchisce impoverendo.

È fantastico, una droga del genere nessun psico-nauta o adolescente in cerca di esperienze e sensazioni forti avevano mai neppure immaginato, è una droga che ti prende, il suo trip è esilarante, la tua coscienza percepisce uno stato di levità che ti fa fluttuare nel realismo onirico nel quale incontri la voce suadente del primo ministro ebbro di successo e di virile sex appeal, per discrezione il lume della ragione è spento, si consigliano occhiali da sole quando qualcuno oserà riaccenderlo, l’impatto potrebbe essere sconvolgente. Se qualcuno fosse interessato o si fosse semplicemente seccato, per usare un eufemismo, propongo la realizzazione di un programma riabilitativo a vita che ci riporti al gioioso grigiore del realismo, dopo la sbornia della governance drug.

Appello in bottiglia da naufraghi nel paese la cui individuazione, comprensiva di descrizione dell’attuale governo, permetterà di vincere un piacevole soggiorno in un villaggio turistico in cui dalla mattina alla sera ci si diverte a smettere di sognare.

Don Ettore Cannavera, riflessioni da "La Collina"

L'Associazione 5 Novembre, ha intervistato Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità di accoglienza "La Collina", rivolta a giovani-adulti, di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, che vengono affidati dalla Magistratura di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione. Un interessante intervista sui temi della Giustizia, del Carcere, del precariato giovanile e della cultura della Solidarietà e dell'accoglienza.