lunedì 8 settembre 2008

Manconi: piano Alfano è inutile, serve un nuovo indulto


Il Velino, 8 settembre 2008


"Ovviamente anche le più recenti dichiarazioni sul fallimento del provvedimento di indulto del 2006 sono prive di qualunque fondamento di realtà. La percentuale di recidiva tra coloro che ne hanno beneficiato è meno della metà di quella registrata tra quanti scontano interamente la pena senza alcun condono o beneficio. I limiti dell’indulto sono altri e si devono alla mancata approvazione di una contestuale amnistia, che avrebbe notevolmente ridotto il sovraccarico di lavoro della magistratura".

Lo afferma Luigi Manconi presidente dell’Associazione "A buon diritto" e già sottosegretario alla Giustizia. "Detto ciò - prosegue Manconi - la questione del sovraffollamento resta cruciale (e senza l’indulto avrebbe superato il livello di guardia, fino a diventare esplosiva) e va affrontata innanzitutto attraverso una strategia intelligente di depenalizzazione e di decarcerizzazione".


Secondo il presidente dell’Associazione "è, invece, utopico e irresponsabile (una vera minaccia alla sicurezza collettiva) affidarsi unicamente alla costruzione di nuove carceri: la capienza e il numero dei posti sono già cresciuti, ma tutte le commissioni tecniche, nominate da tutti i ministri della Giustizia indicano in 12-14 anni il tempo medio necessario alla realizzazione di un nuovo penitenziario. E nel frattempo?".


"Già oggi - sottolinea Manconi - i detenuti condannati per reati non gravi, ai quali rimangano da scontare due anni, possono usufruire della detenzione domiciliare. Il braccialetto elettronico non è una follia: è, rispetto alla spesa che comporta e alle garanzie che offre, una misura pressoché superflua: la percentuale di condannati in detenzione domiciliare che commettono nuovi reati è irrisoria e statisticamente irrilevante".


"Per quanto riguarda i detenuti stranieri, considerato il numero esiguo di accordi bilaterali tra l’Italia e i paesi di provenienza, i provvedimenti di espulsione sono destinati ad avere l’effetto che già hanno le espulsioni degli irregolari: una crescita abnorme, nel corso dei primi mesi del governo Berlusconi, degli sbarchi sulle nostre coste. Forse - conclude Manconi - considerati i risultati relativamente positivi del provvedimento di clemenza del luglio 2006, si dovrebbe pensare a un nuovo indulto e a una contestuale amnistia".

8 commenti:

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: con un’illusione securitaria non si governa il paese

di Giuseppe D’Avanzo



La Repubblica, 8 settembre 2008



Domanda: il ministro di Giustizia, Angelino Alfano, e il suo scudiero Franco Ionta, direttore dell’amministrazione penitenziaria, sono due ingenui dilettanti allo sbaraglio o due ambiziosi furbacchioni che credono di poter raggirare tutti in tutte le occasioni? Se invento nuovi reati e nuove aggravanti; se inasprisco le pene; se faccio di ogni erba un fascio e cancello ogni ragionevole confine tra inciviltà, micro-devianza e criminalità (e anche tra i diversi tipi di criminalità).

Se non punisco più il fatto, ma castigo l’identità, l’appartenenza ad alcune categorie di "umani" che giudico, di per se stesse, pericolose; se - in soldoni - penso di risolvere ogni problema sociale (dalla tossicodipendenza a quello - epocale - dell’immigrazione) con il diritto penale e la galera, non posso poi stupirmi se le carceri scoppiano. Se Alfano è in questa condizione, dovremmo chiederci se è l’uomo giusto al posto giusto.

Se invece, come crediamo, Alfano non è Alice nel Paese delle Meraviglie, il "piano svuota-carceri" che oggi propone è la prova concretissima del fallimento del modello securitario scelto dal governo per fronteggiare la "percezione d’insicurezza" che esso stesso alimenta irresponsabilmente da anni. Agitando la bandiera della sicurezza, la destra di Berlusconi ha costruito la sua credibilità e la vittoria elettorale.

Alla prova dei fatti, alle prese con la dura realtà di fenomeni complessi, getta la spugna escogitando un "piano" che, ancora una volta, mostra quanto sia contraddittoria la sua "visione": Berlusconi ha votato l’indulto; è riuscito, in campagna elettorale, a cacciarlo sulla groppa delle responsabilità di Prodi e, ora che è al governo, se ne cucina un altro. Solo che non lo chiama indulto, ma "piano svuota-carceri".

Già basterebbe, ma non è il peggio. Il peggio è che Alfano vuole convincerci che il suo "piano" non sia uno slogan di marketing politico-burocratico, ma che serva davvero a qualcosa. In realtà, non serve a niente. È inattuabile e soprattutto inutile. È soltanto il tentativo, rispetto al peggio che incombe, di salvare la faccia, di liberarsi di ogni responsabilità futura.

Alfano sa quale inferno sono oggi le carceri e che incontrollabile gehenna diventeranno nei prossimi due anni quando i detenuti in Italia diventeranno più di 70mila (in alcune previsioni, 73 mila) in un sistema predisposto per ospitarne 43 mila. Settantatremila persone ristrette l’uno sull’altro in celle sovraffollate, "chiuse" per venti ore al giorno. Alfano teme che, presto, le rivolte incendieranno i penitenziari.

Sa come i tumulti, già scoppiati in piccoli penitenziari (Trento), possono allargarsi ai più grandi (a Sulmona lo si è già visto) dove, nell’ora d’aria, due poliziotti penitenziari tengono a bada duecento detenuti alla volta. Alfano sa oggi, a prezzo di quali violenze, sia conservato un ordine che non si disintegra soltanto per la responsabilità dei detenuti e il sacrificio della polizia penitenziaria. Vuole soprattutto dirsi innocente per quel che può accadere o accadrà. La sua ricetta ha due medicine. Il braccialetto per i 4.100 italiani da "liberare" e l’espulsione per i 3.300 stranieri che devono scontare meno di due anni.

Ora il braccialetto elettronico, in Italia, è una boutade. La sperimentazione è stata catastrofica e dal 2005 l’uso di questi dispositivi è stato interrotto. Costano troppo (15 milioni l’anno per i 400 braccialetti da testare) e l’impresa non vale il prezzo: la centralina che conferma la presenza del detenuto in casa salta anche quando viene spolverata o sfiorata da un bambino; il meccanismo diventa muto se il detenuto si immerge in una vasca da bagno o scende in cantina con un fiorire di falsi allarmi che mobilitano senza costrutto le forze di polizia che non ne vogliono più sapere nulla di quell’aggeggio. Naturalmente la tecnologia potrebbe migliorare e permettere al detenuto, ad esempio, di lavorare o studiare. Ma a quale prezzo? Ai costi attuali dei braccialetti in dotazione, le casse dello Stato dovrebbero sborsare nei prossimi dieci anni, per i 4000 detenuti programmati, un miliardo e 500 milioni di euro. Ci sono questi soldi in cassa? Alfano sa che non ci sono.

Non è più concreta del braccialetto, l’espulsione per gli stranieri. Si dice che 3.300 stranieri devono scontare ancora due anni e possono farlo nei loro Paesi. È vero, così c’è scritto nella legge. Ma quanti di quei 3.300 devono soltanto scontare tre mesi, sei mesi? Le statistiche del ministero non lo indicano, ma il dato è importante perché l’iter di espulsione di un tribunale di vigilanza (non decide il ministero l’espulsione del detenuto straniero condannato in via definitiva) in media "prende" sei mesi di tempo. Quanti di quei 3.300 saranno già liberi prima che l’idea di Alfano si realizzi? Ammettiamo che tutti i 3.300 debbano scontare due anni e i tempi di espulsione siano coerenti, ci sono le risorse per accompagnarli nei paesi d’origine? I soldi non ci sono e, per quel che se ne sa, anche le espulsioni per via amministrativa del ministero dell’Interno sono ferme al palo per la sofferenza del bilancio.

Anche in questo caso, ammettiamo che il bilancio della Giustizia consenta le espulsioni, è davvero economico rispedire a casa un neozelandese e due kazaki (nelle carceri italiane sono "rappresentate" 160 nazionalità)? E tuttavia ammettiamo ancora che la ricetta di Alfano (braccialetto più espulsioni) sia praticabile, come pensa il governo di impedire che non si crei, tra un anno, la stessa emergenza sovraffollamento di oggi? La questione è decisiva. Indirizzata alla "difesa sociale", spesso manipolata nelle sue criticità, a danno del reinserimento e di ogni programma sociale, la politica securitaria del governo moltiplica soltanto le imputazioni, aggrava le pene e la detenzione, riduce le opportunità di libertà condizionata per una vasta gamma di reati e produce, senza alternative, soltanto nuovi detenuti in misura esponenziale. Per di più senza risolvere la questione sicurezza ché non c’è alcun rapporto tra il tasso di incarcerazione e la riduzione del tasso di criminalità. Su questo incidono, infatti, per gli studi più accreditati, i periodi di crisi economica e sociale, la variazione delle occasioni di guadagni illeciti, la variazione dei livelli occupazionali, il grado di legittimazione delle istituzioni politiche, economiche e sociali.

Dunque, la morale della favoletta di fine estate raccontata da Alfano e Ionta è soltanto una. Con gli slogan si possono forse vincere le campagne elettorali, ma difficilmente si governa un Paese: la destra di Berlusconi prima ha spaventato il Paese e, oggi, non ha uno straccio di idea né per rassicurarlo né per proteggerlo.

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: se continua la crescita tra un anno 67.000 detenuti



La Repubblica, 8 settembre 2008



Con i suoi collaboratori Ionta la chiama "media ponderale". Calcolata su dodici mesi sfruttando il flusso medio mensile di detenuti il risultato parla chiaro: ogni 30 giorni entrano in cella dalle 800 alle mille persone tra italiani e stranieri. Le conseguenze sono semplici e ovvie: al 31 agosto scorso la popolazione carceraria aveva raggiunto quota 55.831 unità. Data la capienza " tabellare" dei 205 istituti di pena - 43.262 posti - e data, a fronte, quella che lo stesso Ionta definisce "capienza molto stressata" di 63.568, per intenderci quando in una cella da due posti ci stanno tre detenuti, oppure cinque in una da tre, e così via, basterà arrivare alla primavera-estate dell’anno prossimo per ritrovarsi nei guai.

E guai seri. Quelli che paventa il Guardasigilli Angelino Alfano quando, a più riprese, continua a dire ai suoi interlocutori: "Se qui scoppia una rivolta nessuno mi potrà accusare di non aver lanciato in tempi debiti un forte allarme". Ne ha parlato pubblicamente al meeting di Cl a Rimini, dov’era con Ionta, ha messo al corrente Berlusconi, ne ha discusso con Maroni. Al Dap, nella stanza di Ionta dove predomina l’azzurro, il colore del corpo della polizia penitenziaria di cui il magistrato è anche direttore, ragionano sui dati dell’indulto e su cosa rese necessario e non più rinviabile quel provvedimento svuota-carceri.

A fine luglio 2006, la legge era stata approvata due giorni prima, negli istituti di pena c’erano 60.710 detenuti. A luglio prossimo, se le stime del Dap sono corrette, si potrebbe arrivare a toccare quota 67mila. Una cifra esplosiva che supererebbe di gran lunga quella dell’indulto quando tutti, dalla Chiesa, alle associazioni di volontariato, ai sostenitori bipartisan di un " gesto di clemenza", gridavano allo scandalo per il sovraffollamento e le condizioni disumane in cui vivevano i detenuti.

Nuove carceri, del resto, non sono neppure ipotizzabili. La verifica fatta dal Guardasigilli Alfano col collega dell’Economia Giulio Tremonti è stata decisiva: niente da fare, in cassa per l’edilizia penitenziaria non c’è una lira. Niente progetti, niente appalti.

E comunque, anche se ci fossero fondi straordinari, recuperati ad hoc per l’emergenza, non si farebbe mai in tempo a realizzare nuove strutture di qui alla prossima primavera-estate. Quando al massimo potrebbero essere disponibili un paio di migliaia di posti con i lavori di ristrutturazione in corso. Decisamente troppo poco per tranquillizzare il governo.

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: il 32% degli arrestati esce dal carcere entro 3 giorni



Redattore Sociale - Dire, 8 settembre 2008



Indagine del Dap sulle detenzioni di brevissima durata: nel 2007 più di 3000 i detenuti sottoposti a rito direttissimo. Dei circa 90 mila ingressi dalla libertà circa 29 mila (32%) sono seguiti da scarcerazione entro tre giorni.

Le camere di sicurezza sono le "celle dello sceriffo", cioè quei locali dove la Polizia giudiziaria dovrebbe tenere coloro che in galera potrebbero finirci come no. Gli arrestati che avendo commesso reati di lieve entità potrebbero anche essere condotti direttamente dal giudice in udienza, e magari rilasciati. In Italia, invece, pare che funzioni diversamente. Le persone infatti, dalla libertà, il più delle volte vengono portate direttamente in galera, anche se poi verranno rilasciate dopo soli 3 o 4 giorni. Sono le detenzioni di brevissima durata.

Tralasciando l’aspetto etico, ovvero l’impatto che il carcere può avere sulle persone (la domanda è "si è certi che non si poteva evitare?"), con l’ingresso in carcere si attiva una macchina organizzativa enorme. Tenuto conto della carenza di personale e delle condizioni spesso non facili, questo contribuisce in grande parte a quel sovraffollamento di cui tanto si parla.

Lo rende noto una ricerca condotta da Elisabetta Sidoni del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, condotta sui maggiori istituti italiani e pubblicata sulla rivista "Le due città". Nel 2007 nell’istituto "Lorusso e Cutugno" sono stati più di 3000 i detenuti sottoposti a rito direttissimo, si legge nel documento, le carcerazioni di breve durata sono tra le cause del sovraffollamento degli istituti e comportano un aggravio di lavoro e di problemi organizzativi.

Iniziamo dalla logistica: se è vero che un gran numero di soggetti portato in istituto dalle forze di pubblica sicurezza va in udienza con rito direttissimo (sono per lo più soggetti colti in flagranza) e quindi viene scarcerato nell’arco di pochissimi giorni (3 o 4 al massimo dall’ingresso in istituto), questo comporta un notevole aggravio di lavoro. Infatti, quando una persona entra in carcere, vengono approntate le procedure di identificazione, registrazione e perquisizione.

Poi la persona viene inserita nel circuito dei cosiddetti Nuovi Giunti, con tutta una serie di attività da svolgere in tempi brevissimi: visita medica, colloquio psicologico, apertura di un fascicolo matricolare e una cartella clinica, consegna di un kit per l’igiene essenziale e di quello per ricevere i pasti. Infine, cosa non banale, gli si deve assegnare un posto letto, e questo spesso significa dover aspettare che qualcun altro venga scarcerato. A tutto questo si aggiungono poi le pratiche di scarcerazione.

"Tutto ciò - si legge nella ricerca di Elisabetta Sidoni - comporta un costo in termini di lavoro, di tempi e di risorse materiali, ma anche una ricaduta in accumuli di tensione nel contesto detentivo". "Le procedure vengono spesso svolte a ritmi incalzanti. Gli operatori si trovano ad affrontare vere e proprie emergenze, nella consapevolezza che gran parte dell’impegno profuso per attenersi alle procedure e rispettare la dignità delle persone non risolverà se non nell’immediato, un problema destinato a ripresentarsi e comunque a ripercuotersi nella quotidianità dei reparti detentivi veri e propri, massacrati da un andirivieni costante".

L’indagine ha preso a campione un singolo istituto di grandi dimensioni, allargandosi poi all’intera penisola. Dall’archivio informatico del carcere preso in esame è risultato che, nel carcere di Torino dei 7.015 soggetti entrati dalla libertà nel corso del 2007, ben 3.919 vengono scarcerati entro i 3 giorni successivi. Quindi, più della metà (il 56%) ha una permanenza in carcere molto breve (la quasi totalità è ipotizzabile sia stata sottoposta a rito direttissimo).

A livello nazionale, per dare un’idea dell’ordine di grandezza del fenomeno, risulta che nel 2007 su circa 90.000 ingressi dalla libertà, circa 29.000 (ossia il 32%)sono seguiti da scarcerazione entro i 3 giorni successivi. Ma quali sono, a livello nazionale, i reati più frequentemente ascritti con una permanenza in carcere così breve? il 25% Legge stranieri (eventualmente associati ad altri tipi di reati); il 20% produzione e spaccio di stupefacenti; il 19% furto; il 12% violenza e resistenza a Pubblico Ufficiale.

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: suicidi e rischio di rivolte, una situazione esplosiva

di Alberto Custodero



La Repubblica, 8 settembre 2008



Franco Paglioni è morto in carcere qualche giorno fa, a Forlì, "abbandonato alla sua malattia e tra le sue feci", come segnala "Ristretti Orizzonti", rivista on-line dedicata alla vita dietro le sbarre. I compagni di cella e il volontariato carcerario hanno denunciato "la sua fine assurda: stava male, ma nessuno l’ha curato. Episodi come questi, non devono succedere. Neanche i cani si abbandonano così, si curano. E lui era una persona".

Paglioni è una delle 72 persone detenute decedute quest’anno in prigione (31 per suicidio, le altre per altre cause). Uno di questi decessi - ancora da chiarire - avvenuto il 27 agosto, ha scatenato nel carcere di Trento una rivolta dei detenuti che nella notte hanno incendiato tutto quel che avevano a disposizione. E occupato i cortili. Ma in quei "ristretti orizzonti" dietro le sbarre si consumano ogni giorno violenze di ogni tipo. A fine agosto, a Cosenza - lo ha denunciato il leader del Movimento diritti civili, Franco Corbelli - un detenuto sieropositivo è stato stuprato, picchiato e minacciato. Ed è successo (lo ha dichiarato Leo Beneduci, dell’Osapp, il sindacato della Polizia penitenziaria), "che un transessuale sia finito nella stessa cella di uno stupratore", "che i detenuti usino i fornelletti dei cucinini per scaldare l’olio e tirarselo addosso quando litigano fra loro".

"E che i poliziotti - ha aggiunto - subiscano in media due aggressioni al giorno, più di 700 all’anno". Nelle carceri, spiega il leader dell’Osapp, i detenuti sono "stipati" alla rinfusa, senza tenere conto "delle differenze etniche, religiose, e gli odi che ci possono essere fra malavitosi di mafie fra loro in concorrenza".

Beneduci: "A San Vittore si registra un aumento preoccupante di risse fra albanesi, magrebini e romeni". E c’è chi dice che siano gli albanesi ad avere qui il controllo dei bracci del carcere. Ma a Bologna, secondo Valerio Guizzardi, di Papillon (associazione di detenuti o ex), "manca l’acqua calda perché l’impianto termico è per 400 detenuti, non per i 1.100 che ci sono attualmente".

"E i carcerati - dice ancora Guizzardi - si lamentano del cibo causa di gastriti e altre patologie che, a detta loro, neppure un maiale mangerebbe. Le condizioni igieniche nel carcere della Dozza sono talmente precarie che il sindaco Sergio Cofferati ha emesso un’ordinanza per ripristinare l’igiene".

Per Vittorio Antonini, vicepresidente nazionale di Papillon, ergastolano (entrò in carcere nell’aprile del 1985), il sovraffollamento delle prigioni "disattende la finalità rieducativa della reclusione prevista dalla Costituzione: il rapporto fra educatori e psicologi di uno ogni 200 rende impossibile, per questi operatori, svolgere la loro funzione fondamentale, che è avviare il reinserimento esterno della popolazione carceraria".

Sulla stessa linea Beneduci, secondo il quale "il sistema carcerario, dove la sicurezza non è garantita, è diventata una scuola di crimine. Ma come si fa a rispondere alla finalità rieducativa di Cesare Beccaria se in condizioni normali c’è un agente ogni dieci detenuti? E in alcune situazioni, come ad esempio di notte, si arriva anche a uno ogni 150?". Su questo punto il tam-tam carcerario diffonde notizie allarmanti, come quella secondo cui a Napoli, Poggioreale, durante l’ora d’aria, 200 detenuti siano controllati da appena due agenti.

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: per espulsioni e braccialetto un percorso a ostacoli



Il Velino, 8 settembre 2008



Lo studio avviato da tempo dal ministro della Giustizia Angelino Alfano per superare l’emergenza che fra poco interesserà le nostre carceri (56 mila i detenuti, contro un limite sopportabile di 62 mila), prevede soluzioni alternative alla detenzione. La soluzione ottimale per il ministro sarebbe quella di trasferire nei loro paesi d’origine almeno tremila stranieri che stanno scontando pene definitive e concedere gli arresti domiciliari ad almeno quattromila detenuti italiani (in gran parte ne beneficerebbero quanti devono scontare un residuo di pena di due anni) controllandoli con il braccialetto elettronico.

I consiglieri del Guardasigilli su questi dati hanno però sollevato molte perplessità e non pochi dubbi su quelle che ritengono siano in buona parte soltanto buone intenzioni. Secondo loro, infatti, gli stranieri interessati ad una soluzione di trasferimento sarebbero soltanto qualche centinaio, quelli cioè che debbono scontare condanne definitive molto lunghe. C’è fra l’altro da superare il vincolo posto dalle convenzioni internazionali che stabiliscono l’indispensabile accettazione da parte del detenuto di voler proseguire la detenzione nel proprio paese d’origine.

Quelli che invece debbono scontare pene minime o vengono espulsi, ma è sempre necessario che il paese dove sono nati li accetti, oppure difficilmente chiedono di ritornare nei loro paesi. Gli esperimenti realizzati con l’Albania, dove abbiamo perfino costruito il nuovo carcere, sotto questo profilo non è certo rassicurante. Si potrebbe tentare di incrementare la disponibilità di alcuni paesi a riprendersi i propri cittadini in detenzione pagando loro le spese di retta, che fra l’altro sarebbero molto più basse che in Italia, ma le trattative su questa ipotesi sono ancora ai primi passi.

Quanto al braccialetto elettronico per i detenuti italiani, l’iniziativa fu avviata dal governo D’Alema. Enzo Bianco, allora ministro dell’Interno, lo sperimentò in alcune città, a Catania, per esempio, ma con risultati poco chiari. Il sistema di controllo era allora molto oneroso, il braccialetto deve essere in contatto con la centralina che viene posta nell’abitazione del detenuto, la quale poi deve inviare i dati ad una centrale unica territoriale. Le tecnologie sono adesso molto più sviluppate, anche perché è possibile allargare il controllo anche dal punto di vista visivo installando telecamere a costi abbastanza ridotti.

È pure possibile collegare il braccialetto elettronico ad una rete telefonica mobile, come per i cellulari, e così in caso di allontanamento dal domicilio imposto dal magistrato il detenuto verrebbe ugualmente seguito nei suoi spostamenti. Una condizione quest’ultima vicina a quella sollecitata dal ministro dell’Interno Roberto Maroni che teme fughe generalizzate. Superati i problemi tecnici, dovrebbe essere il magistrato di sorveglianza a decidere di volta in volta.

Ma si ritiene che il braccialetto potrebbe riguardare ragionevolmente non più di duemila detenuti che scontano pene detentive definitive e che hanno dato prova di buona condotta. Potrebbe, poi, anche applicarsi e in tempi strettissimi, ai detenuti, quasi 800, che godono della semilibertà e che ritornano in carcere soltanto la notte, e a quelli "articolo 21" (quasi 700) che lavorano all’esterno dei penitenziari. Se il braccialetto elettronico fosse applicato a tutti costoro, si renderebbero disponibili, in tempi brevissimi, oltre 1.500 posti nel sistema carcerario.

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: Tenaglia; braccialetto? boomerang per la sicurezza



Asca, 8 settembre 2008



"La sperimentazione del braccialetto, quando è stata fatta, non ha dato dei buoni risultati. Sia per l’alto numero delle evasioni, sia per il costo, sia per i buchi nella copertura della rete di controllo. Rischia addirittura di essere un boomerang per la sicurezza". Lanfranco Tenaglia, esponente del Pd, boccia l’idea dell’utilizzo di questo strumento per le persone soggette agli arresti domiciliari.

Per quanto riguarda il problema del sovraffollamento delle carceri, il ministro ombra della Giustizia del Pd spiega , che va affrontato attraverso "la previsione di strumenti alternativi alla detenzione" quali, ad esempio, "la messa in prova preventiva e l’estensione dell’istituto dell’affidamento successivo alla sentenza, previsto per i minori, anche ai detenuti maggiorenni". Quanto al sistema delle espulsioni, Tenaglia osserva che esso "fallisce se non ci sono gli accordi bilaterali con i Paesi di provenienza che dovrebbero riprendersi i detenuti".

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: Corleone; braccialetto? inutile senza ricorse sociali

di Claudia Fusani



La Repubblica, 8 settembre 2008



Il braccialetto elettronico come soluzione per alleggerire il peso della sovraffollamento carcerario è questione che si affaccia spesso nel dibattito politico sulla sicurezza. Se ne sono occupati governi di destra e di sinistra. E per quanto la tecnologia si perfezioni via via negli anni, il controllo elettronico a distanza del detenuto è soluzione giudicata "inutile", "impraticabile" e "costosa".

Lo dice Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia tra il 1996 e il 2001 e ora Garante dei detenuti in Toscana. "Siamo da capo a dodici", celia Corleone riferendosi al fatto che "ogni tanto spunta l’ipotesi del braccialetto, questa volta addirittura nella forma di un piano sembra di capire quasi esecutivo, ma il governo sta ritirando fuori un’ipotesi di cui già quando ero in via Arenula era stata valutata l’inutilità, l’impraticabilità nonché i costi eccessivi".



Perché la considera una misura inutile?

"Perché il braccialetto è un alibi per non risolvere il vero problema che è quello di trovare un modo per reinserire i detenuti con meno di tre anni di pena da scontare che possono lasciare il carcere".



Il piano Alfano-Ionta prevede il braccialetto per 4.100 detenuti, coloro che hanno meno di due anni da scontare e per reati che non creano allarme sociale.

"Per questi detenuti esistono già le misure alternative, cioè la semilibertà e l’affidamento in prova ai servizi sociali. Solo che i Tribunali di sorveglianza non le applicano perché i detenuti in questione non hanno residenza e non hanno un lavoro, che sono i requisiti base per accedere alle misure alternative".



Appunto, il braccialetto consente comunque a queste persone di uscire...

"Ma se non hanno un lavoro e una casa, se non hanno un percorso sociale che li accoglie una volta fuori, cosa crediamo che possano fare queste persone? Avremo evasioni e recidivi. Il braccialetto è una bufala".



Quale soluzione, allora?

"Creare percorsi di inserimento sociale, lavori socialmente utili, questa è la vera sfida".



Lei dice che il piano è inapplicabile anche per i costi.

"Attualmente sono 400 i braccialetti in sperimentazione dal 2003, per lo Stato equivale a un costo di 11 milioni all’anno. Significa che per quattromila detenuti spenderemo 110 milioni".



Molto meno della spesa attuale visto che ogni detenuto costa in media 250 euro al giorno.

"Sì, ma si deve sapere che questa cifra - i 110 milioni - una volta fatto l’appalto devono essere comunque pagati anche se non vengono utilizzati tutti i quattromila bracciali elettronici. Questi soldi potrebbero essere spesi per creare percorsi protetti di reinserimento sociale".



Un piano tutto da buttare?

"No. I bracciali potrebbero ad esempio essere usati per le migliaia di detenuti in carcere in attesa di giudizio e di condanna definitiva. Ma su questo punto ricordo che a suo tempo polizia e carabinieri non erano affatto d’accordo".



E sui 3.300 detenuti stranieri da espellere?

"È una norma già prevista sotto i due anni di pena. ma non riesce a decollare. Ci sono problemi giuridici. Il principale è che i paesi di origine non accettano indietro i propri detenuti. Ma se lo dovessero fare, chiederanno a noi i soldi del mantenimento? Piuttosto, perché non studiare forme di impiego di mano d’opera di questi detenuti stranieri in imprese italiane che lavorano all’estero?".

Roberto Loddo ha detto...

Giustizia: Gonnella; sono provvedimenti più effimeri di indulto



Redattore Sociale - Dire, 8 settembre 2008



Sovraffollamento, il presidente di Antigone: "Mille ingressi al mese, è qualcosa di straordinario. Avevamo già lanciato l’allarme. Tre i motivi: la legge Bossi-Fini, la ex Cirielli e il clima politico-culturale generato sul tema sicurezza".

"La nostra associazione ha lanciato l’allarme a metà luglio sul boom degli ingressi in carcere. Quando presentammo il nostro rapporto annuale sulle carceri dicemmo che la media di ingressi si era attestata sulle mille unità al mese. Un fenomeno che non si era manifestato così, visto che la media di ingressi in carcere negli ultimi 15 anni è stata di mille/millecinquecento l’anno. Una media di mille al mese segnala qualcosa di straordinario".

Il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, cerca di spiegare così la situazione che sta alla base delle ultime proposte del ministro della giustizia Alfano e del nuovo capo del Dap (dipartimento amministrazione penitenziaria), Ionta, a proposito di espulsione di una parte degli stranieri detenuti e uso del braccialetto elettronico come forma di controllo per i detenuti soggetti a misure alternative al carcere.

Gonnella non si dichiara pregiudizialmente contrario a queste due misure, ma ricorda che non sono affatto una novità e che anzi sarebbe stato possibile applicarle già da anni visto che sono inserite nella legislazione vigente (il braccialetto elettronico è stato introdotto da Fassino quando era guardasigilli e l’espulsione degli stranieri detenuti a fine pena è prevista dalla Bossi-Fini). Il problema caso mai è capire (e dunque intervenire) sulle cause che stanno alla radice della produzione di detenuti.

"In particolare - sempre secondo Gonnella - il nuovo boom di ingressi in carcere è dovuto a tre motivi fondamentali: il primo riguarda la legge Bossi-Fini sull’immigrazione che è andata a regime proprio quest’anno e che ha prodotto un aumento degli arresti dovuti a chi non ottempera le norme sulle espulsioni e gli ingressi; il secondo motivo riguarda la ex Cirielli sulla recidiva (2005).

Anche queste norme sono andate a regime e stabiliscono aumenti di pena per i recidivi che provocano ovviamente l’aumento delle presenze in carcere". Il terzo motivo - spiega sempre Gonnella - è di ordine politico-culturale: c’è un’aria generale di stretta sui temi della sicurezza che provoca inevitabilmente un’accelerazione degli arresti.

"Ma in provvedimenti proposti dal ministro della giustizia - dice Gonnella - rischiano di essere ancora più effimeri dell’indulto. Basta guardare all’esperienza finora realizzata: le espulsioni degli stranieri a fine pena non si fanno perché i loro Stati di origine non li vogliono e non ci sono accordi bilaterali in tal senso. Anche le esperienze del braccialetto elettronico (che nel 2001 era una cavigliera) sono state deludenti. Si è fatta la prova in quattro o cinque città con le cavigliere prodotte dalla Telecom che allora vinse un appalto. Ma l’esperimento non funzionò e non solo a causa degli alti costi. C’è anche da ricordare che finora le forze di polizia non hanno mai visto di buon occhio l’introduzione e l’uso del braccialetto elettronico".

Don Ettore Cannavera, riflessioni da "La Collina"

L'Associazione 5 Novembre, ha intervistato Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità di accoglienza "La Collina", rivolta a giovani-adulti, di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, che vengono affidati dalla Magistratura di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione. Un interessante intervista sui temi della Giustizia, del Carcere, del precariato giovanile e della cultura della Solidarietà e dell'accoglienza.