venerdì 26 settembre 2008

Lettere: Sassari; il "San Sebastiano" è in condizioni disastrose


La Nuova Sardegna, 26 settembre 2008


Sono un detenuto della casa circondariale di San Sebastiano che parla a nome di tutti i detenuti, mi chiamo Alberto Campus alias "Albertone" e voglio scontare la mia pena con dignità e riguardo. Se l’istituto penitenziario lo permettesse. Vorrei vivere qui dentro senza prendere malattie a causa dei gravi problemi igienico-sanitari della struttura, fare la doccia come i comuni mortali senza dover "litigare" con gli agenti penitenziari per via delle regole che cambiano ogni qualvolta c’è il cambio di guardia. I nostri materassi e i cuscini sono una vergogna solo a vederli perché deteriorati e con macchie di chissà quale genere.


Potrei continuare così all’infinito perché di cose che non vanno, qui dentro, c’è ne sono davvero parecchie. Il mangiare non è adeguato all’80% della popolazione detenuta che soffre di diverse malattie epatiche. Il vitto, quando non si prende quello che passa l’amministrazione, lo prepariamo in 5 metri quadri che sono disposti così: bagno alla turca (ma credo che se lo vedessero i turchi cambierebbero subito il nome al sanitario) allestito a cucina e deposito alimentare.


Prendo come esempio il mio caso: vengo privato di essere un cattolico credente che ha sempre frequentato la chiesa del suo quartiere (la domenica) con grande rispetto perché la sala dove viene celebrata la santa messa è chiusa da diverso tempo. Secondo esempio: ho fatto presente ai medici responsabili dell’istituto penitenziario di aver bisogno di una visita allergologa per via del 72% di ustioni di terzo grado che ho in tutto il corpo ma a oggi non si è ancora visto nessun specialista.


Abbiamo ricevuto una visita da parte dei Radicali per esporre i problemi all’interno della struttura e sembra fatto apposta perché gran parte dei detenuti, me compreso, non si trovava nelle celle perché usufruiva dell’ora d’aria mattutina. Volevo esporre in prima persona questi problemi alla direttrice alla quale ho fatto domanda, ma ancor oggi non ho avuto occasione di poterci parlare sicuramente per i suoi notevoli impegni lavorativi.

Alberto Campus


(nell'immagine) Chloe Shuff "I love miro also"

13 commenti:

Roberto Loddo ha detto...

Zagrebelsky; Pericle… insegnami che cos’è la legge

di Gustavo Zagrebelsky



La Repubblica, 26 settembre 2008



Quali principi sono alla base di una norma? Quanto vale il criterio maggioritario e quanto la necessità del dialogo? Un tema dibattuto dai tempi di Pericle e rimbalzato fino all’attualità.



"Dimmi, Pericle, mi sapresti insegnare che cosa è la legge?" chiede Alcibiade a Pericle. Pericle risponde: "Tutto ciò che chi comanda, dopo aver deliberato, fa mettere per iscritto, stabilendo ciò che si debba e non si debba fare, si chiama legge". E prosegue: "Tutto ciò che si costringe qualcuno a fare, senza persuasione, facendolo mettere per iscritto oppure in altro modo, è sopraffazione piuttosto che legge". Se non ci si parla, non ci si può comprendere e, a maggior ragione, non è possibile la persuasione.

Questa è un’ovvietà. Per intendere però l’importanza del contesto comunicativo, cioè della possibilità che alle deliberazioni legislative concorra un elevato numero di voci che si ascoltano le une con le altre, in un concorso che, ovviamente, non è affatto detto che si concluda con una concordanza generale, si può ricorrere a un’immagine aristotelica, l’immagine della preparazione del banchetto. In questa immagine c’è anche una risposta all’eterna questione, del perché l’opinione dei più deve prevalere su quella dei meno.

Il principio maggioritario è una semplice formula giuridica, un espediente pratico di cui non si può fare a meno per uscire dallo stallo di posizioni contrapposte (E. Ruffini)? È forse solo una "regoletta discutibile" (P. Grossi) che trascura il fatto che spesso la storia deve prendere atto, a posteriori, che la ragione stava dalla parte delle minoranze, le minoranze illuminate (e inascoltate)? Oppure, si tratta forse non di una regoletta ma di un principio che racchiude un valore? Non diremo certo che la maggioranza ha sempre ragione (vox populi, vox dei: massima della democrazia totalitaria), ma forse, a favore dell’opinione dei più, c’è un motivo pragmatico che la fa preferire all’opinione dei meno. A condizione, però, che "i più" siano capaci di dialogo e si aggreghino in un contesto comunicativo, e non siano un’armata che non sente ragioni.

In un passo della Politica di Aristotele (1281b 1-35), che sembra precorrere la sofisticata "democrazia deliberativa" di Jürgen Habermas e che meriterebbe un esame analitico come quello di Senofonte al quale ci siamo dedicati, leggiamo: "Che i più debbano essere sovrani nello Stato, a preferenza dei migliori, che pur sono pochi, sembra che si possa sostenere: implica sì delle difficoltà, ma forse anche la verità. Può darsi, in effetti, che i molti, pur se singolarmente non eccellenti, qualora si raccolgano insieme, siano superiori a ciascuno di loro, in quanto presi non singolarmente, ma nella loro totalità, come lo sono i pranzi comuni rispetto a quelli allestiti a spese di uno solo. In realtà, essendo molti, ciascuno ha una parte di virtù e di saggezza e quando si raccolgono e uniscono insieme, diventano un uomo con molti piedi, con molte mani, con molti sensi, così diventano un uomo con molte eccellenti doti di carattere e d’intelligenza".

Dunque, inferiori presi uno per uno, diventano superiori agli uomini migliori, quando è consentito loro di contribuire all’opera comune, dando il meglio che c’è in loro. Più numeroso il contributo, migliore il risultato.

Naturalmente, quest’immagine del pranzo allestito da un "uomo in grande" non supera questa obiezione: che nulla esclude che ciò che si mette in comune sia non il meglio, ma il peggio, cioè, nell’immagine del pranzo, che le pietanze propinate siano indigeste. Ma questa è un’obiezione, per così dire, esterna. Dal punto di vista interno, il punto di vista dei partecipanti, è chiaro che nessuno di loro ammetterebbe mai che il proprio contributo all’opera comune è rivolta al peggio, non al meglio.

Ognuno ritiene di poter contribuire positivamente alle decisioni collettive; l’esclusione è percepita come arbitrio e sopraffazione proprio nei riguardi della propria parte migliore.

Ora, accade, e sembra normale, che il partito o la coalizione che dispone della maggioranza dei voti, sufficiente per deliberare, consideri superfluo il contributo della minoranza: se c’è, bene; se non c’è, bene lo stesso, anzi, qualche volta, meglio, perché si risparmia tempo. Le procedure parlamentari, la logica delle coalizioni, la divisione delle forze in maggioranza e opposizione, il diritto della maggioranza di trasformare il proprio programma in leggi e il dovere delle minoranze, in quanto minoranze, di non agire solo per impedire o boicottare, rendono comprensibile, sotto un certo punto di vista, che si dica: abbiamo i voti e quindi tiriamo innanzi senza curarci di loro, la minoranza. Ma è un errore. Davvero la regola della maggioranza si riduce così "a una regoletta".

Una regoletta, aggiungiamo, pericolosa. Noi conosciamo, forse anche per esperienza diretta, il senso di frustrazione e di umiliazione che deriva dalla percezione della propria inutilità. Si parla, e nessuno ascolta. Si propone, e nessuno recepisce. Quando la frustrazione si consolida presso coloro che prendono sul serio la loro funzione di legislatori, si determinano reazioni di auto-esclusione e desideri di rivincita con uguale e contrario atteggiamento di chiusura, non appena se ne presenterà l’occasione. Ogni confronto si trasformerà in affronto e così lo spazio deliberativo comune sarà lacerato. La legge apparirà essere, a chi non ha partecipato, una prevaricazione.

La "ragione pubblica" - concetto oggi particolarmente studiato in relazione ai problemi della convivenza in società segnate dalla compresenza di plurime visioni del mondo - è una sfera ideale alla quale accedono le singole ragioni particolari, le quali si confrontano tramite argomenti generalmente considerati ragionevoli e quindi suscettibili di confronti, verifiche e confutazione; argomenti che, in breve, si prestino a essere discussi. Le decisioni fondate nella ragione pubblica sono quelle sostenute con argomenti non necessariamente da tutti condivisi, ma almeno da tutti accettabili come ragionevoli, in quanto appartenenti a un comune quadro di senso e di valore. Contraddicono invece la ragione pubblica e distruggono il contesto comunicativo le ragioni appartenenti a "visioni del mondo chiuse" (nella terminologia di John Rawls, che particolarmente ha elaborato queste nozioni, le "dottrine comprensive"). Solo nella sfera della "ragione pubblica" possono attivarsi procedure deliberative e si può lavorare in vista di accordi sulla gestione delle questioni politiche che possano apparire ragionevoli ai cittadini, in quanto cittadini, non in quanto appartenenti a particolari comunità di fede religiosa o di fede politica.

Un sistema di governo in cui le decisioni legislative siano la traduzione immediata e diretta - cioè senza il filtro e senza l’esame della ragione pubblica - di precetti e norme derivanti da una fede (fede in una verità religiosa o mondana, comunque in una verità), sarebbe inevitabilmente violenza nei confronti del non credente ("l’infedele"), indipendentemente dall’ampiezza del consenso di cui potessero godere. Anzi, si potrebbe perfino stabilire la proporzione inversa: tanto più largo il consenso, tanto più grande la violenza che la verità è capace di contenere.

Sotto questo aspetto, dire legge non violenta equivale a dire legge laica; al contrario, dire legge confessionale equivale a dire legge violenta. La verità non è di per sé incompatibile con la democrazia, ma è funzionale a quella democrazia totalitaria cui già sì è fatto cenno.

L’esigenza di potersi appellare alla ragione pubblica nella legislazione, un quanto si voglia sconfiggere la violenza che sempre sta in agguato nel fatto stesso di porre la legge, spiega la fortuna attuale dell’etsi Deus non daretur, la formula con la quale, quattro secoli fa, Ugo Grozio invitava i legislatori a liberarsi dall’ipoteca confessionale e a fondare il diritto su ragioni razionali; invitava cioè a lasciar da parte, nella legislazione civile, le verità assolute. Mettere da parte Dio e i suoi argomenti era necessario per far posto alle ragioni degli uomini; noi diremmo: per costruire una sfera pubblica in cui vi fosse posto per tutti. Naturalmente, da parte confessionale un simile invito ad agire indipendentemente dall’esistenza di Dio non poteva non essere respinto. Per ogni credente, Dio non si presta a essere messo tra parentesi, come se non ci fosse. Ma l’esigenza che ha mosso alla ri-proposizione di quell’antica espressione (G. E. Rusconi) non è affatto peregrina. È l’esigenza della "ragione pubblica". A questa stessa esigenza corrisponde l’invito opposto, di parte confessionale, rivolto ai non credenti affinché siano loro ad agire veluti si Deus daretur (J. Ratzinger). Altrettanto naturalmente, anche questo invito è stato respinto.

Per un non credente in Dio, affidarsi a Dio (cioè all’autorità che ne pretende la rappresentanza in terra) significa contraddire se stessi. Ma questa proposta-al-contrario coincide con la prima, nel sottolineare l’imprescindibilità di un contesto comune, con Dio per nessuno o con Dio per tutti, nel quale la legge possa essere accettata generalmente in base alla persuasione comune.

Entrambe le formule non hanno dunque aiutato a fare passi avanti. Sono apparse anzi delle provocazioni, ciascuna per la sua parte, alla libertà, autenticità e responsabilità della coscienza. In effetti, non si tratta affatto di esigere rinunce e conversioni di quella natura, né, ancor meno, di chiedere di agire come se, contraddicendo se stessi. Non è questa la via che conduce a espungere la violenza dalla legislazione.

Un punto deve essere tenuto fermo: la legge deve essere aperta a tutti gli apporti, compresi quelli basati su determinate assunzioni di verità. La verità può trovare posto nella democrazia e può esprimersi in "legislazione che persuade", perché la democrazia non è nichilista. Ma solo a patto però - questo è il punto decisivo - che si sia disposti, al momento opportuno, quando cioè ci si confronta con gli altri, a difendere i principi e le politiche che la nostra concezione della verità a nostro dire sostiene, portando ragioni appropriatamente pubbliche (J. Rawls).

Così, i sistemi religiosi, filosofici, ideologici e morali non sono esclusi dalla legislazione, ma vi possono entrare solo se hanno dalla propria parte anche buone ragioni "comuni", su cui si possa dissentire o acconsentire, per pervenire a decisioni accettate, pur a partire da visioni del mondo diverse, come tali non conciliabili. La legislazione civile, in quanto si intenda spogliarla, per quanto è possibile, del suo contenuto di prevaricazione, non può intendersi che come strumento di convivenza, non di salvezza delle anime e nemmeno di rigenerazione del mondo secondo un’idea etica chiusa in sé medesima.

Il divieto dell’eutanasia può essere argomentato con una ragione di fede religiosa: l’essere la vita proprietà divina ("Dio dà e Dio toglie"); l’indissolubilità del matrimonio può essere sostenuta per ragioni sacramentali ("non separare quel che Dio ha unito"). Argomenti di tal genere non appartengono alla "ragione pubblica", non possono essere ragionevolmente discussi. Su di essi ci si può solo contare. La "conta", in questi casi, varrà come potenziale sopraffazione. Ma si può anche argomentare diversamente. Nel primo caso, ponendo il problema di come garantire la genuinità della manifestazione di volontà circa la fine della propria esistenza; di come accertare ch’essa permanga tale fino all’ultimo e non sia revocata in extremis; di come evitare che la vita, nel momento della sua massima debolezza, cada nelle mani di terzi, eventualmente mossi da intenti egoistici; di come evitare che si apra uno scivolamento verso politiche pubbliche di soppressione di esseri umani, come dicevano i nazisti, la cui vita è "priva di valore vitale". Alla fine, se ne potrà anche concludere che, tutto considerato, difficoltà insormontabili e rischi inevitabili o molto probabili consigliano di far prevalere il divieto sul pur molto ragionevole argomento dell’esistenza di condizioni di esistenza divenute umanamente insostenibili. Oppure, viceversa. Nel secondo caso, si potrà argomentare sull’importanza della stabilità familiare, nella vita e nella riproduzione della vita delle persone e delle società; a ciò si potrà contrapporre il valore della genuinità delle relazioni interpersonali e la devastazione ch’esse possono subire in conseguenza di vincoli imposti. Su questo genere di argomenti si può discutere, le carte possono mescolarsi rispetto alle fedi e alle ideologie, le soluzioni di oggi potranno essere riviste domani. Chi, per il momento, è stato minoranza non si sentirà per questo oggetto di prevaricazione.

Qualora poi le posizioni di fede non trovino argomenti, o argomenti convincenti di ragione pubblica per farsi valere in generale come legge, esse devono disporsi alla rinuncia. Potranno tuttavia richiedere ragionevolmente di essere riconosciute per sé, come sfere di autonomia a favore della libertà di coscienza dei propri aderenti, sempre che ciò non contraddica esigenze collettive irrinunciabili (questione a sua volta da affrontare nell’ambito della ragione pubblica). Tra le leggi che impongono e quelle che vietano vi sono quelle che permettono (in certi casi, a certe condizioni). Le leggi permissive, cioè le leggi di libertà (nessuno oggi pensa - in altri momenti si è pensato anche questo - che l’eutanasia o il divorzio possano essere imposti) sono quelle alle quali ci si rivolge per superare lo stallo, il "punto morto" delle visioni del mondo incompatibili che si confrontano, senza che sia possibile una "uscita" nella ragione pubblica. Anzi, una "ragione pubblica" che incorpori, tra i suoi principi, il rigetto della legge come violenza porta necessariamente a dire così: nell’assenza di argomenti idonei a "persuadere", la libertà deve prevalere. Questa è la massima della legge di Pericle.

Roberto Loddo ha detto...

allarme dell'Osapp; troppi detenuti e pochi operatori



Apcom, 26 settembre 2008



L’Organizzazione Sindacale Autonoma della Polizia Penitenziaria lancia l’allarme sul fenomeno del sovraffollamento delle carceri e sulle difficoltà dell’amministrazione penitenziaria per arrivare al cuore discussione politica.

"Parlare di riforme sembra adesso non avere più alcun senso, come vuoto è sembrato essere il nostro richiamo dopo i tragici fatti di Castel Volturno - dice il segretario generale dell’Osapp, Leo Beneduci -. I richiami servano a poco rispetto a chi prefigura ancora oggi la possibilità di un cambiamento attraverso singole iniziative, o attraverso politiche aleatorie come per il braccialetto elettronico o il rimpatrio degli stranieri nei loro paesi d’origine".

"I detenuti sono arrivati a quota 56.226 e non ci sono gli uomini incaricati alla rieducazione. Rispetto ad un organico di 10.189 operatori amministrativi e tecnici, 3.606 sono le unità di personale mancanti, e le restanti non sempre sono applicate al carcere - prosegue Beneduci - .Una situazione drammatica che configura, ad un completamento della dotazione prevista di 41.233 agenti di Polizia Penitenziaria, 5.180 poliziotti che non rispondono all’appello.

Roberto Loddo ha detto...

il Comitato Ue per prevenzione tortura visita l’Italia



Apcom, 26 settembre 2008



I delegati del Comitato per la prevenzione della tortura (Cpt) del Consiglio d’Europa sono da alcuni giorni in Italia e hanno già visitato numerose carceri, Centri di identificazione per gli immigrati e caserme, in Piemonte, Lombardia e Sardegna. La delegazione, composta da giuristi e medici legali, incontrerà il ministro della Giustizia Angelino Alfano al quale, a quanto si è appreso, esprimerà forte preoccupazione per la situazione italiana.

Roberto Loddo ha detto...

quasi 3.000 i detenuti italiani nelle carceri straniere

di Dimitri Buffa



L’Opinione, 26 settembre 2008



Per quasi 3mila famiglie italiane c’è un dramma in più oltre a quelli quotidiani dovuti alla crisi: avere un congiunto nei guai con la giustizia in un paese straniero. La cifra dei detenuti secondo i dati del ministero di via Arenula raggiungeva a fine del 2007 la ragguardevole quota di 2.823 unità. La somma dei detenuti di un carcere di una grande città come Roma o Milano, insomma.

La maggior parte, 2304, sono detenuti in Europa. E fin qui, sia pure con eccezioni e sfumature mica tanto leggere nei paesi dei Balcani e dell’Est europeo, ancora si potrebbe ragionare. I problemi veri vengono infatti dagli altri 519 italiani in galera in paesi come India, Brasile, Egitto, Marocco, Filippine, Sri Lanka, Thailandia e anche negli Stati Uniti d’America. La maggior parte di loro è dentro, va detto, per reati odiosi come la pedofilia, lo stupro, l’omicidio o il traffico internazionale di sostanze stupefacenti.

Alcuni però si professano innocenti e alcuni altri sono chiaramente vittime di persecuzioni giudiziarie messe in atto a scopo di estorsione da corrottissime polizie locali, come accade spesso in Messico, India, Brasile o Thailandia. Poi ci sono casi eclatanti, come quello del carabiniere italiano pestato a sangue e torturato per dieci giorni nella cella di isolamento di una prigione croata perché "pretendeva" di avere ragione in un incidente stradale.

O come quello dei due giovani italiani, Angelo Falcone e Simone Nobili, che, dal 9 marzo 2007, si trovano in un carcere in India accusati di avere comprato diciotto chili di hashish da due tassinari, in realtà spie della polizia, e dopo avere firmato una "confessione" in hindi, lingua che ovviamente neppure conoscono, a forza di botte. Del loro caso se ne occupa da più di un anno il consolato italiano di New Dehli.

Ma la domanda è: come se ne occupa? "Male, malissimo", fanno sapere i membri di una lodevole Ong italiana, Secondoprotocollo.org, che da anni denuncia questo problema degli italiani detenuti all’estero e dei pochissimi fondi a disposizione delle ambasciate per aiutarli. In pratica i soldi in dotazione non superano i 5 o 10mila euro l’anno, con i quali spesso neanche si pagano le visite in carcere di un avvocato mediocre.

Inoltre i legali in loco, "convenzionati" con le nostre ambasciate, sono spesso gente non controllata dalle nostre autorità. E infatti Simone e Angelo hanno fatto spendere, da innocenti, quasi centomila euro alle rispettive famiglie con legali di ufficio che hanno preteso cifre da capogiro solo per presenziare il processo: anche 40mila euro a udienza. Anche in Paesi civili come la super-libera California può capitare di trovarsi dentro ingranaggi come quelli del film con Alberto Sordi "Detenuto in attesa di giudizio".

Ne sa qualcosa Carlo Parlanti, un nostro connazionale di Montecatini Terme che nel 2004 venne arrestato in Germania e poi estradato in California con l’accusa di stupro sulla base delle dichiarazioni della ex convivente. Da allora è in galera e il nostro paese non è riuscito a fare assolutamente nulla per lui che si proclama vittima di una macchinazione e che ha anche fornito la prova dell’impossibilità materiale delle accuse a lui contestate.

Anche in Grecia possono succedere cose molto spiacevoli, come sanno bene quei due studenti estradati ad Atene dall’Italia per il possesso di 21 grammi di hashish e adesso in attesa di un giudizio che potrebbe rivelarsi pesantissimo.

Per tutte queste persone, ma anche per i colpevoli di reati che non meritano comprensione, oggi come oggi esiste una sola certezza: se non c’è la famiglia dietro ad aiutarti economicamente e con gli avvocati, sullo Stato italiano non c’è davvero da far conto. Nonostante tutta la retorica sugli italiani all’estero anche da questo punto di vista siamo il fanalino di coda della Ue e del mondo occidentale. E i recenti tagli in finanziaria hanno se possibile ulteriormente aggravato la situazione.

Roberto Loddo ha detto...

Sicilia: Uil; oltre 6.500 detenuti, le carceri regionali scoppiano



Il Velino, 26 settembre 2008



"Con oltre 6.500 detenuti, la situazione ha superato la fase post-indulto e fa segnare i livelli del pre-indulto. Di questo passo l’ingovernabilità è dietro l’angolo. Le condizioni detentive non garantiscono igiene, salubrità e spazi di vivibilità e le tensioni interne cominciano a farsi pesanti". È con queste parole che Gioacchino Veneziano, della segretaria regionale Uil-Penitenziari Sicilia, lancia l’allarme sullo stato delle carceri isolane.

"Il personale di Polizia penitenziaria in Sicilia conta appena che 4.650 unità, di cui 900 si occupano del servizio Traduzioni e Piantonamenti e circa il dieci per cento surroga la carenza di personale amministrativo. Altre 150 - sottolinea Veneziano - unità sono impiegate tra provveditorato, uffici esecuzione penale esterna e per la tutela di Autorità".

A conti fatti sono all’incirca duemila le unità di polizia penitenziaria impiegate effettivamente in compiti di vigilanza e custodia. "Con questo trend di ingressi siamo prossimi al collasso. Sentiamo solo parlare di costruire nuove carceri, ma non di aumentare gli organici . Eppure siamo al 1996, anno in cui vi fu un sostanziale aumento di uomini. Da oltre dodici anni, quindi, assumiamo nuovi servizi ma non nuovi uomini".

La Polizia penitenziaria, impegnata nella lotta alla criminalità, sconta duramente le deficienze organiche, come denuncia Gioacchino Veneziano, che sottolinea come tali condizioni potrebbero aggravare i fattori di rischio. "Su quasi tutto il territorio regionale la soppressione e la negazione dei riposi e dei congedi è oramai una realtà.

È sempre inaccettabile la soppressione dei diritti elementari ancor più quando si colpisce operatori già oberati da condizioni di lavoro stressanti e inqualificabili". La Uil Penitenziari Sicilia auspica che il Guardasigilli Alfano, e il capo della Polizia penitenziaria Ionta, cominciano ad analizzare le questioni aperte "semmai iniziando proprio dalla Sicilia, punta avanzata delle criticità del sistema".

Roberto Loddo ha detto...

Milano: appello del Provveditore; 7 detenuti in celle da 9 metri



www.cronacaqui.it, 26 settembre 2008



È di nuovo emergenza carceri sovraffollate. A lanciare l’ennesimo grido d’allarme è sempre il provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano. Che ieri mattina, durante la Sottocommissione carcere a Palazzo Marino, ha rivolto un accorato appello alle istituzioni affinché "intervengano subito". "Fra due mesi ci troveremo di nuovo nella situazione pre-indulto - conferma Pagano - con condizioni inumane dovute al sovraffollamento. Così non si può più andare avanti".

Solo a San Vittore, al momento, ci sono 1.415 detenuti contro una capienza originaria di 700-800 posti. Che tradotto significa celle di 9 metri quadrati che ospitano addirittura 7 persone. La situazione non è migliore negli altri due istituti dei pena milanesi: 1.200 i carcerati di Opera che al massimo ne può ospitare 932 e 700 i detenuti di Bollate che ne può accogliere al massimo 903. Secondo il provveditore Pagano, bisogna trovare delle forme "alternative al carcere".

Le statistiche, infatti, dicono che la recidiva di chi sconta tutta la pena in carcere è del 71 per cento; quella di sconta pene alternative è del 17 per cento. Marco Granelli e Marco Cormio, Consiglieri comunali del Pd, confermano: "Le strade per intervenire possono essere tante, ma bisogna fare e fare in fretta. Come Comune di Milano sicuramente si può e si deve collaborare mettendo in atto quelle opportunità di lavoro e di inserimento sociale di competenza comunale per favorire l’accesso alle forme di detenzione alternative così da diminuire l’utilizzo del carcere, con le garanzie adeguate e con risultati migliori".

D’altronde, la Regione Lombardia, prevede dal 2005 che nei Piani di Zona dei servizi sociali i Comuni capofila (tra cui Milano) realizzino "un tavolo permanente" per favorire l’integrazione dei detenuti. Dal canto suo, l’assessore comunale alle Politiche sociali Mariolina Moioli, si impegna a "riprendere il confronto sul tema del lavoro ai detenuti non appena sarà definitivamente insediata la società di gestione dell’Expo". L’idea, infatti, è quella che un grande

Roberto Loddo ha detto...

Imperia: l’organico è ridotto all’osso, il Sappe lancia l’allarme



www.sanremonews.it, 26 settembre 2008



È il grido d’allarme che arriva dalla segreteria provinciale imperiese del Sappe (Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria. Attualmente come si legge dalla nota stampa inviata agli organi di stampa, sono già 20 le unità di Polizia Penitenziaria chiamate a prestare servizio in altri istituti, determinando che l’organico sia sceso a sole 50 unità.

Sulla questione è intervenuto anche Michele Lorenzo, segretario regionale Liguria: "In queste condizioni non si può continuare, la Polizia Penitenziaria, in questo momento sta fronteggiando una serie di quotidiani episodi di protesta della popolazione detenuta, ciò determina un maggiore impegno e stress lavorativo da parte dei colleghi. Non dimentichiamo certamente il passato: abbiamo già pagato in termini di evasioni e di procedimenti penali la drammaticità dell’istituto e l’indifferenza dei vertici; tanto poi a pagare è sempre l’anello debole del sistema, cioè il collega di turno". Oggi la popolazione detenuta è di 113 unità a fronte di una capienza di 78 posti ed il 70% è costituito da detenuti stranieri.

"Chiediamo che le forze politiche locali s’interessino seriamente - prosegue Michele Lorenzo - del problema carcere in particolare delle condizioni di sovraffollamento al quale corrisponde una forte carenza d’organico della Polizia Penitenziaria. Comunque, anche in questa situazione, la Polizia Penitenziaria sta egregiamente gestendo la sicurezza dell’istituto evitando e prevenendo che gli eventi critici possano sfociare in ben più gravi conseguenze".

Ma l’Amministrazione penitenziaria non può assistere impassibile a questo fenomeno, ha l’obbligo di intervenire, in primis facendo rientrare il personale di Polizia attualmente chiamato a prestare servizio prettamente nelle sedi del Sud Italia. Inoltre è auspicabile soluzioni alternative alla detenzione in istituto. Se fosse già applicabile il braccialetto elettronico, circa 20 detenuti della C.C. di Imperia potevano scontare la reclusione ai domiciliari.

Roberto Loddo ha detto...

Libri: "Politica e Giustizia ai tempi delle Br", di Raffaele Costa



Targato Cn, 26 settembre 2008



Questa sera alle 18.30 a Mondovì (presso la Sala conferenze, Corso Statuto 13) l’on. Raffaele Costa presenterà il suo ultimo libro "Politica e Giustizia ai tempi delle Br. Diario di un sottosegretario liberale (1979-1980)". Sono passati 30 anni da quando Raffaele Costa redasse il suo diario, pubblicato in queste settimane (da Mondadori). Quando Costa descrisse, per 259 giorni consecutivi, ciò che accadeva nelle carceri, ma anche nella vita politica italiana, era il tempo delle Br: il caso Moro era scoppiato non da molto ed aveva lascito tracce profonde nella vita politica, ma anche sociale, del Paese. Per quanto contrastate in modo aspro, le Br continuavano a mietere vittime.

Non pochi brigatisti erano stati arrestati e tradotti nelle carceri di massima sicurezza: molti altri erano ancora in libertà. La vita nelle carceri era assai tormentata. In particolare, nonostante la legge del 1975 prevedesse ampie possibilità di lavorare anche negli istituti di pena quasi tutti i detenuti oziavano. Il diario di Raffaele Costa descrive decine e decine di situazioni carcerarie a dir poco difficili con i detenuti politici intenti a trafficare e con svariate migliaia di detenuti comuni impegnati a poltrire. Accanto al racconto di diversi episodi legati all’attività delle Br (in primis il caso Peci che contribuì in modo significativo allo sgretolamento dell’organizzazione sovversiva per merito soprattutto del Generale Dalla Chiesa) il diario evidenzia come nelle carceri non ci fosse un’attività destinata al recupero del condannato lasciato, quasi sempre, in balia della solitudine inattiva ovvero di compagni altrettanto privi di segnali positivi (il lavoro soprattutto) capaci di contribuire al loro recupero.

La previsione dell’autore "chi esce privo di capacità lavorative torna quasi sempre in carcere" ha avuto una conferma nei 30 anni che seguiranno i tempi descritti da Raffaele Costa. Una conferma divenuta ufficiale in occasione dell’indulto del 2006 che vide passare i detenuti da 61.000 a 39.000 nel giro di pochi mesi, per tornare dopo meno di un anno a quota 55.000 a causa soprattutto dei nuovi reati compiuti da coloro che erano stati scarcerati senza capacità lavorative.

Come creare diverse condizioni? Raffaele Costa dà un’indicazione: far lavorare i detenuti. Come? Far si che ditte esterne affidino loro un’attività retribuita in modo diverso (ad esempio la retribuzione a cottimo) da quanto stabilisce la legge del 1975, che prevede tuttora per il lavoratore detenuto i due terzi di quanto previsto all’esterno dai contratti di lavoro, una retribuzione che le ditte (per le complicanze di affidare lavoro a chi è in prigione) non sono in grado di sostenere o non ritengono adeguata.

Roberto Loddo ha detto...

Immigrazione: Polizia; no a reato clandestinità e 18 mesi in Cie



Ansa, 26 settembre 2008



Non piacciono al Sap (Sindacato Autonomo di Polizia) l’introduzione del reato di clandestinità e l’aumento fino a 18 mesi del tempo di permanenza nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie). Lo ha detto il segretario generale del sindacato, Nicola Tanzi, nel corso di una audizione informale alle commissioni Giustizia ed Affari Costituzionali del Senato, che stanno esaminando il disegno di legge sulla sicurezza contenente le due norme.

"Noi - ha premesso Tanzi - condividiamo le linee generali del provvedimento, ma c’è grossa preoccupazione per l’operatività degli articoli 9 (reato di clandestinità) e 18 (18 mesi nei Cie). Il primo, prevedendo l’arresto obbligatorio in flagranza ed il processo per direttissima, implica che gli stranieri vadano presi e accompagnati non in carcere ma presso le strutture di polizia e tenuti in custodia fino al giorno dopo quando ci sarà il processo.

Ciò - ha evidenziato - comporta che le pattuglie dovranno abbandonare il territorio per sorvegliare i fermati: ci sarà quindi meno sicurezza". Inoltre, aggiunge, "la norma aggraverà il sovraffollamento delle carceri e determinerà un aumento esponenziale dei processi". "Ancora più grave - ha proseguito il segretario del Sap - l’articolo che allunga i tempi di detenzione nei Cie. In queste strutture - ha ricordato - ci sono già tanti problemi, con frequenti rivolte e danneggiamenti: portare a 18 mesi la permanenza significa dover destinare ancora più uomini e mezzi per la sorveglianza; personale che viene ancora una volta sottratto al territorio".

Roberto Loddo ha detto...

Immigrazione: dall'Ue via libera al "patto", stretta sugli ingressi



Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2008



Via libera a Bruxelles da parte dei ministri degli Interni dei 27 al "Patto europeo" per l’immigrazione, un insieme di linee guida per disciplinare in modo comune le norme sull’ingresso degli immigrati.

Il Patto, presentato nel luglio scorso e fortemente voluto dal presidente francese Nicolas Sarkozy, mira a organizzare l’immigrazione in Europa in maniera più selettiva. Prevede regole più rigide per la regolarizzazione degli immigrati e per l’asilo, maggiore attenzione alla lotta all’immigrazione illegale, requisiti stringenti sui congiungimenti familiari, il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne Ue e l’agevolazione dei rimpatri dei clandestini. Si tratta però di un documento che esprime l’impegno politico dei Governi, non vincolante dal punto di vista legi-slativo. L’obiettivo di Sarkozy è ora quello di far approvare invia definitiva l’intesa dal vertice dei leader europei che si terrà a Bruxelles, sotto presidenza francese, il prossimo 15 ottobre.

Il Patto invita gli Stati europei a porre in essere politiche di immigrazione che tengono conto delle esigenze di professionalità dei rispettivi mercati del lavoro. L’accordo invita ogni Paese europeo a prendere in esame le regolarizzazioni degli immigrati caso per caso, senza sanatorie collettive. E a esaminare al momento della valutazione delle richieste le capacità di integrazione delle famiglie valutate, incluso il grado di conoscenza della lingua del Paese di destinazione.

Ma tenendo conto anche delle risorse e della situazione dell’edilizia abitativa nel luogo di arrivo. Il patto sollecita il rafforzamento della cooperazione tra gli Stati Ue e i Paesi di origine e di transito, promuovendo anche accordi di riammissione. L’intesa invita anche a combattere con la massima fermezza coloro che sfruttano stranieri in situazione irregolare.

Ed esprime l’impegno a dare all’agenzia Frontex i mezzi per esercitare pienamente la sua missione di coordinamento per il controllo delle frontiere esterne. Previsto entro il 1° gennaio 2012 l’impegno di tutti i Paesi europei a rilasciare visti con dati biometrici. Mentre, sempre entro il 2012, la Commissione europea dovrà presentare proposte volte a costituire una procedura d’asilo comune.

Secondo il sottosegretario all’Interno Nitto Palma, che ha rappresentato l’Italia al Consiglio dei ministri Ue, il patto per l’immigrazione è un "grande passo avanti" che "tiene conto" delle esigenze di solidarietà dei Paesi più esposti come l’Italia. Il Parlamento europeo, intanto, si è espresso ieri contro il voto agli immigrati di lunga durata alle elezioni europee e locali.

Roberto Loddo ha detto...

Immigrazione: seconda generazione; "stranieri a casa nostra"

di Fabrizio Ravelli



La Repubblica, 26 settembre 2008



Parlano italiano, hanno studiato, sono integrati. Eppure i figli degli extracomunitari sono cittadini con meno diritti degli altri. E dopo la morte di Abdoul, il ragazzo ucciso a sprangate a Milano, dicono: "Non vogliamo essere considerati immigrati per sempre".

"Sono arrivato dall’Angola che avevo due anni. Ora ne ho ventitré, lavoro da cinque, ho studiato qui. Nemmeno mi ricordo dove sono nato. Questa è la mia terra". Gelson veste di nero, parla un italiano fluido e preciso, e ha gli occhi rossi di lacrime. È uno degli amici di Abdoul, detto Abba, italiano ammazzato a sprangate da un barista che gli gridava "sporco negro". Gelson è uno di quelli che sfilavano rabbiosi in testa alla manifestazione: "Ma se c’è stato un po’ di disordine chiediamo scusa, era solo uno sfogo, vogliamo solo gridare che siamo qui, che esistiamo, che siamo cittadini di questo Paese".

Esistono, sono qui. Seconda generazione, figli di immigrati. Nati qui, o arrivati bambini. Cittadini italiani, o sulla strada di diventarlo superando la corsa a ostacoli della burocrazia. L’Italia fatica a conoscere e ad ammettere quello che in altri paesi è storia. Ci pensa la cronaca nera a sbatterci in faccia questa realtà, quando l’incomprensione diventa intolleranza, violenza, razzismo.

Che sia il sangue di Abdoul, o la minaccia di morte per Meryem, 22 anni, figlia di marocchini, che a Treviso ha fondato un’associazione "per dare voce a quelli che vogliono difendersi". Si chiama Seconda Generazione, appunto. E si chiama G2 (www.secondegenerazioni.it) la rete attiva da tre anni, un network fondato a Roma da figli di immigrati che lavora sui temi dei diritti negati e dell’identità.

Un bel pezzo del futuro di questo Paese, a tutti gli effetti. Ragazzi a rischio di sradicamento, ma tutt’altro che rassegnati o passivi. In Francia (lì il fenomeno risale agli anni Cinquanta) li chiamano "generazione della sofferenza". "Non più legati al Paese di origine, non ancora totalmente parte del Paese dove vivono", spiega Giulio Valtolina, psicologo, che lavora per la Fondazione Ismu. Non sono molti, in Italia, gli studi sulla seconda generazione: oltre a quelle dell’Ismu, ci sono le ricerche della Fondazione Agnelli e poco più.

È difficile perfino contarli, questi ragazzi: "Sono sempre sottostimati, come numero - dice Stefano Molina, direttore ricerca della Fondazione Agnelli - Bisognerebbe avere dati che non sono disponibili: luogo di nascita, cittadinanza, luogo di nascita dei genitori. Sulla base del lavoro fatto qui a Torino, abbiamo stimato che in Italia siano circa un milione, forse poco più".

"Quello che l’opinione pubblica non ha capito - continua Molina - è che si tratta di un fenomeno destinato a crescere in modo vertiginoso". Le ricerche chiamano di seconda generazione, in senso stretto, solo i giovani figli di immigrati nati in Italia. Chiamano "generazione 1,75" quelli nati all’estero e immigrati in età pre-scolare, "generazione 1,5" quelli arrivati a 6-12 anni, e "generazione 1,25" quelli immigrati a 13-17 anni. Pare una pignoleria, ma i percorsi di integrazione sono diversi. Certo è che "fra 3-4 anni i nati in Italia saranno alcune decine di migliaia, e saranno 60-70 mila quando arriveranno alla maggiore età quelli nati nel ventunesimo secolo. Intere città, in bilico fra l’appartenenza italiana e il sentirsi rifiutati".

"Non vogliamo essere considerati immigrati a vita", dice Meryem. Questa ragazza di 22 anni, arrivata da Casablanca quando ne aveva 10, che parla italiano con un dolce accento trevigiano, è un bell’esempio di seconda generazione. Studia Economia internazionale a Padova, e lavora part-time come commessa ("con contratto a tempo indeterminato").

Parla italiano, arabo, inglese, francese, tedesco, "poi un pochino di spagnolo, e ho fatto un corso di giapponese e cinese, oltre a un corso dell’Aeronautica militare quando ero al liceo". Ha fondato il suo gruppo per protesta: contro un’amministrazione comunale dove il pro-sindaco Gentilini urla frasi come "macché moschee, gli immigrati vadano a pregare e a pisciare nel deserto".

Ma anche per protesta contro la generazione dei padri: "Non sono in grado di prendere iniziative, sono venuti per lavorare e farci studiare, sono abituati a tacere. Lo facciamo anche per riscattarli, per rendere giustizia ai nostri genitori". In questo senso, la seconda generazione vive - con licenza parlando - una sorta di Sessantotto.

"Fin qui - dice Laura Zanfrini, sociologa dell’Ismu - il modello di inclusione degli immigrati si è giocato su ruoli di scarso prestigio sociale, su lavori pesanti e marginali. È inevitabile che sia messo in discussione dalla seconda generazione". "La prima generazione - dice Molina - ha fatto una scommessa, e dovrà sempre dimostrare a chi è rimasto nel Paese di origine di avercela fatta. Ma la seconda ha i metri di giudizio del compagno di banco, e vuole riscattare il "fallimento" dei genitori che hanno accettato ogni mortificazione. In questo senso, mi sembrano simili ai ragazzi nel nostro neo-realismo, alla voglia di combattere che avevano negli anni Cinquanta".

Questo desiderio di riscatto li spinge a un impegno doppio, a chiedere per esempio scuole più serie e più severe. "Non siamo solo diversi dai nostri genitori - dice Meryem - ma anche dai figli di italiani. Qui a Treviso molti sono passivi, vivono la vita sociale come estranei, pensano solo a divertirsi. Non leggono, non si informano, e nemmeno lo fanno i loro genitori".

Nei sondaggi torinesi, alla domanda su cosa volessero fare da grandi, i ragazzi figli di immigrati rispondono: matematico, medico, magistrato. E questo a dispetto del fatto che molti di loro (quelli 1,5 o 1,25) incontrano problemi scolastici legati alla lingua. Però puntano in alto e, come dice Molina, "abbiamo di fronte un milione di ragazzi che stanno crescendo e per i quali l’opinione pubblica prevede un futuro appiattito su quello dei loro genitori".

Si fa il possibile, magari senza badarci, per farli sentire diversi ("Però, come parli bene italiano"). Poi, a pesare, ci sono quelli che i ricercatori chiamano "marcatori etnici": la pelle scura, gli occhi a mandorla, e così via. "È complicato - dice Medhin Paolos della rete G2 - costruirsi un’identità quando il tuo aspetto esteriore non corrisponde al tuo accento, quando ti accorgi che gli altri hanno una percezione di te diversa da quella che hai di te stesso".

Per un Mario Balotelli, ragazzo nero e unico italiano nella formazione dell’Inter, ci sono legioni di potenziali disadattati. Succede che decidano a volte di adottare quella che si chiama "identità reattiva". "È il rifiuto del contesto dove vivono e spesso sono nati - spiega Valtolina - Si formano un’identità estremizzata, con i caratteri del paese da cui vengono i genitori. Vale per le bande di latinos, ma anche per certa islamizzazione estrema". Alla manifestazione per Abba, molti suoi amici urlavano la rabbia contro "i bianchi".

Anche ottenere a 18 anni la cittadinanza italiana non è così semplice. Spiega Molina: "Ti chiedono, per esempio, un certificato di cittadinanza ininterrotta in un Comune italiano. Che spesso sono molti Comuni. O magari ci sono brevi interruzioni nel percorso. È tutto molto complicato, per i figli di immigrati. Succede così che molti, a 19 anni, restano cittadini di un Paese che magari non hanno mai visto o di cui non parlano la lingua".

Meryem, a 22 anni, ancora aspetta: "Quando papà l’ha avuta, io avevo appena compiuto i 18. Devo aspettare 700 giorni, e cioè 10 anni da quando ho avuto la residenza". Chi si dimentica di chiederla, può avere permessi di studio ma non di lavoro. Non può lavorare e studiare, e nemmeno andare all’estero per un Erasmus.

Una generazione sospesa: gli italiani non li vedono come concittadini, ma loro si sentono diversi anche in mezzo ai parenti. Bisognerebbe guardare alle realtà di altri paesi europei, dice Molina, e abituarsi all’idea di avere un medico con la pelle nera, un magistrato con gli occhi a mandorla, un professore nordafricano. Sarebbe un disastro "sprecare questo patrimonio".

I ricercatori badano alle realtà media perché, dice lui citando Talleyrand, "tutto ciò che è eccessivo non è rilevante". Ma resta la brutta impressione che anche gli scoppi di razzismo siano entrati a far parte della normalità, per questi ragazzi della seconda generazione. Meryem, che non è praticante ma lotta per fare avere ai suoi un luogo dove pregare, dice: "Non ho paura delle minacce. So bene che qui a Treviso c’è del razzismo puro, e che c’è gente disposta a usare le maniere forti".

Roberto Loddo ha detto...

Spagna: in Catalogna "piano pilota" per la castrazione chimica



Ansa, 26 settembre 2008



Il governo regionale catalano avvierà un progetto pilota per la "castrazione chimica" volontaria di responsabili recidivi di violenze sessuali: lo ha ribadito oggi in dichiarazioni alla Radio Cadena Ser il ministro regionale della giustizia catalano, Montserrat Tura. La misura era già stata annunciata da Tura il mese scorso in una intervista a El Pais. L’introduzione della castrazione chimica per i delinquenti sessuali recidivi è allo studio anche da parte del governo spagnolo, che potrebbe prevederla nella prossima revisione del codice penale. La castrazione chimica è in realtà un trattamento farmacologico che inibisce le pulsioni sessuali. Si tratta, ha spiegato Tura oggi, di aiutare "queste persone ad essere sicuri di controllare il proprio desiderio irrefrenabile".

Roberto Loddo ha detto...

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Don Ettore Cannavera, riflessioni da "La Collina"

L'Associazione 5 Novembre, ha intervistato Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità di accoglienza "La Collina", rivolta a giovani-adulti, di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, che vengono affidati dalla Magistratura di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione. Un interessante intervista sui temi della Giustizia, del Carcere, del precariato giovanile e della cultura della Solidarietà e dell'accoglienza.