mercoledì 3 settembre 2008

Carcere di Buoncammino: continua lo sciopero della fame di un detenuto da 42 giorni


Agi, 2 settembre 2008


In 42 giorni di sciopero della fame ha perso tredici chili. Un detenuto nel carcere cagliaritano di Buoncammino, alto 1,85 è arrivato a pesare 51 chili, non si regge più sulle gambe e manifesta "un grave stato confusionale" che ne rende indispensabile il ricovero urgente in ospedale. Lo sollecita il consigliere regionale socialista Maria Grazia Caligaris, che denuncia le condizioni in cui vive il giovane, un detenuto di 31 anni in attesa di giudizio in carcere da un anno e quattro mesi. Dopo averlo incontrato nel penitenziario, Caligaris l’ha invitato invano a sospendere la protesta.


"Il rifiuto del cibo, che il giovane considera ormai come un veleno cui sottrarsi, ha indotto uno stato anoressico", spiega il consigliere regionale, componente della commissione "Diritti civili" dell’assemblea sarda. "Il detenuto, assistito dal suo compagno di cella, ha rifiutato il ricovero nel centro clinico di Buoncammino. Finora sono stati vani i tentati di farlo recedere dal proposito autolesionista, compresi quelli dei suoi legali, gli avvocati Luigi Concas e Paolo Pilia".


"Il giovane respinge le accuse che gli vengono contestate", prosegue Caligaris, sostenendo che per salvarlo e capire le cause psicologiche del suo gesto sia necessario il ricovero in ospedale. "L’atteggiamento, però, danneggia gravemente le sue condizioni mentali, provocandogli stati di psicosi maniaco-depressiva e somatizzazioni. In casi così gravi", conclude Caligaris, "è opportuno che i giudici individuino soluzioni alternative al carcere in attesa che il processo accerti le reali responsabilità del detenuto".


1 commento:

Anonimo ha detto...

Perché si deve introdurre il reato di tortura nell'ordinamento giuridico italiano

02 settembre 2008

L’articolo di Angelo Miotto, pubblicato dalla rivista trimestrale “Emergency” distribuita nel giugno 2008, ha il merito di sensibilizzare l’opinione pubblica, ancorché il Parlamento, sull’importante tema dell’introduzione, nel nostro ordinamento giuridico (in particolare nel Codice Penale), del reato di tortura. Un salutare richiamo che cade a fagiolo all’interno dell’attuale contesto socio-politico che in atto sembra vivacizzato da altri argomenti di facile presa.

Quello della tortura è un argomento assai delicato, controverso, sul quale da tempo si è aperta una riflessione dottrinaria e culturale in conseguenza dell’acutizzarsi del fenomeno nella maggior parte degli stati del pianeta. Tuttavia, da almeno 20 anni, malgrado gli sforzi compiuti, non si riesce a produrre (parlo del nostro Paese) un atto legislativo a testimonianza dell’affermarsi di sensibilità nuove nel campo dei diritti e della intoccabilità della persona nel corpo e nella mente.
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Il clima da “caccia alle streghe” che oggi si respira nel Paese in nome della questione sicurezza, non favorisce comportamenti virtuosi e pragmatici quanto meno a livello decisionale. Anzi, non è una minoranza quella che propugna, nel governo, “irrigidimenti” normativi lesivi dei diritti di libertà, delle garanzie costituzionali e degli accordi sottoscritti dall’Italia in sede europea ed internazionale.

Non saranno, comunque, i demagogici richiami all’uso del “pugno di ferro”, da parte di un manipolo di nostalgici, a fermane il corso degli eventi volti ad introdurre elementi di civiltà giuridica nell’organizzazione statuale. Eventi, a pensarci bene, che non sembrano subire troppo la “pressione autoritaria” se in Parlamento, senza distinzione di schieramenti politici, c’è chi si è impegnato a presentare organiche proposte per trasformare la tortura in reato, con tanto di sanzioni, a difesa della dignità della persona e dei diritti umani in generale. Si dirà: ma è soltanto l’agitarsi di uno sparuto numero di parlamentari appartenenti a tutti i raggruppamenti. Meglio, comunque, del silenzio assordante che farebbe saltare definitivamente dall’agenda dei lavori ogni proposito inducendo, non solo gli osservatori più attenti, a pensare che sui diritti umani le belle parole sovrastano le concrete decisioni.

I primi ad agire sono stati (ma non sono i soli, per la verità), i senatori del PDL Salvo Fleres (che è anche in Sicilia il Garante per la tutela dei diritti fondamentali dei detenuti) e Mario Ferrara, che hanno sottoscritto la proposta n° 264 (presentata il 29 aprile 2008, vale a dire lo stesso giorno in cui ha avuto inizio l’attuale XVI legislatura) recante “Introduzione dell’articolo 613 bis del codice penale ed altre disposizioni in materia di tortura”. Non è un male che l’iniziativa venga presa da settori del centro-destra, dopo anni di colpevoli rinvii la cui responsabilità va divisa equamente fra tutti i gruppi parlamentari.

Nella sostanza, e non poteva essere diversamente, si tratta di una proposta che mira ad adeguare la “normativa interna a quella di carattere sopranazionale, colmando insufficienze del diritto interno a garanzia dei diritti umani”. Verosimilmente il d.d.l. in questione riprende il testo unificato (approvato dalle competenti commissioni legislative e riportato nel citato articolo di Miotto) delle proposte di legge presentate alla Camera dei Deputati nella XV legislatura e non esitato, per la responsabilità di qualche gruppo ed anche per lo scioglimento anticipato del Parlamento.

A mio avviso bisogna partire da questa proposta (senza escludere le altre nel frattempo presentate) per arrivare a definire normativamente, nel più breve tempo possibile, il “reato che non c’è” (così è titolato l’articolo di Miotto) e del quale gli uomini liberi o quelli privati della libertà personale che si trovano nel nostro paese, non possono farne a meno tanto è il bisogno di tutela per difendersi da abusi e violenze frutto di un autoritarismo mai sopito e del disprezzo dei principi di legalità e di ragionevolezza. Per non parlare della necessità di onorare impegni internazionali giacchè l’Italia, fin dal novembre 1988, ha ratificato la Convenzione dell’ONU contro la tortura (del 1984) e sottoscritta l’apposita Convenzione europea. Dichiarazioni solenni nelle quali si definisce il concetto (articolo 1) di tortura, senza mezzi termini e con lo scopo di sottolinearne l’incompatibilità con i valori civili, culturali e politici assai diffusi nelle grandi democrazie occidentali.

Cos’è la tortura nel mondo? A quale logica ubbidisce? Perché non è rinviabile un rigoroso contrasto?

Il termine “tortura” designa “qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni. Di punirla…, di intimidirla… o infliggendo sofferenze per mano di un funzionario pubblico o di qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale….. Nella storia del diritto la tortura è definita come un complesso dei mezzi di coercizione personale, tanto fisica che morale, impiegati nel processo (e, al di fuori di esso, nell’attività di polizia che lo precede e accompagna) per accertare la responsabilità degl’imputati, al fine di provocarne la confessione…… In senso diverso, ma non meno rilevante nella storia del diritto criminale, si connette alla nozione di tortura anche il complesso delle sevizie esercitate sui condannati durante la espiazione della pena, come mezzo continuativo di aggravamento del trattamento detentivo (ceppi, catene, custodia in ambienti insalubri tali da pregiudicare la sopravvivenza a qualsiasi essere umano) e come modalità di applicazione della pena capitale, nei casi più gravi eseguita con complicati e crudelissimi tormenti”. Definizioni, quelle riportate, frutto di una triste realtà che è comunque al di sopra di ogni immaginazione.

Naturalmente il tema dell’entità della pena da infliggere non può essere un tabù ed è, dunque, necessario che sul punto i legislatori (integrando, se necessario, le proposte presentate) trovino un accordo ampio affinché la punizione sia severa e proporzionata alla gravità degli atti posti in essere. Soprattutto è necessario non “annacquare” la previsione (già ben inserita nel testo esitato in commissione nella passata legislatura) di un considerevole aumento di pena se la condotta delittuosa è opera di pubblici ufficiali. Fatti recenti, assai drammatici, hanno messo a nudo taluni comportamenti di soggetti che, abusando della loro qualifica, “ne hanno fatto di tutti i colori” con ferocia e spavalderia quasi dessero per scontata l’impunità. Coerente con la più avveduta giurisprudenza (anche internazionale) e con i modelli in vigore negli altri paesi, appare la proposta di istituire presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri una commissione (“per la riabilitazione delle vittime della tortura”) con il compito di gestire un fondo a favore delle persone che hanno subito la tortura, destinato ad assicurare, alle stesse, il risarcimento dei danni subiti e l’erogazione di contributi per garantire una completa riabilitazione psico-fisica.

Quando si afferma che “il reato di tortura non c’è” si dice il vero e si sottolinea un fatto.

È arrivato, pertanto, il momento di non “mollare la preda” per colmare una incomprensibile lacuna, non solo giuridica, che costituisce una grave menomazione del nostro ordinamento giuridico. Non si può andare alla “guerra” con armi spuntate. La tortura è ampiamente praticata e ne sanno qualcosa quelli che l’hanno subita e la continuano a subire. Occorre una incisiva norma giuridica non solo per consentire agli operatori del diritto di agire efficacemente, ma anche per evidenziare l’esistenza di una organica tutela in favore di tutti gli esseri umani, titolari di diritti e di doveri, soggetti alla giurisdizione italiana.

Il reato di tortura e le conseguenti sanzioni se da un lato colmerebbero un vuoto ordinamentale, dall’altro costituirebbero validi elementi di dissuasione nei confronti di non pochi soggetti, che, nell’esercizio di un potere, non hanno alcuna remora di ledere la dignità dell’uomo per riaffermare una sorta di delirio di potenza molto spesso conseguenza di un deserto morale e culturale.

In questa legislatura il reato di tortura può diventare tale se si mettono da parte ideologismi ed interpretazioni settarie e si compia, alla luce del sole, un serrato dibattito dove prevalga la coesione, il civile confronto e la consapevolezza di rendere un servizio alla causa della giustizia e della sua modernizzazione nel solco di una grande tradizione filosofica e giuridica.

Sapranno i nostri governanti, i deputati ed i senatori, una volta tanto, distogliere la loro attenzione dalla sterile polemica politica quotidiana per impegnarsi a fondo sul versante della positiva tutela dei diritti dell’uomo? Malgrado tutto, essere fiduciosi, talvolta, può essere espressione di saggezza.



Avv. Lino Buscemi

Segretario Generale Conferenza Nazionale Garanti Regionali diritti dei detenuti.

Presidente Nazionale Comitato Scientifico Ass. Naz. Difensori Civici Italiani.

Don Ettore Cannavera, riflessioni da "La Collina"

L'Associazione 5 Novembre, ha intervistato Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità di accoglienza "La Collina", rivolta a giovani-adulti, di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, che vengono affidati dalla Magistratura di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione. Un interessante intervista sui temi della Giustizia, del Carcere, del precariato giovanile e della cultura della Solidarietà e dell'accoglienza.