di Patrizio Gonnella
(Presidente Associazione Antigone)
Italia Oggi, 30 luglio 2008
di Ristretti Orizzonti www.ristretti.it
È alle porte un ulteriore irrigidimento del carcere duro, il regime disciplinato dall’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario. Ci aveva provato il precedente governo Prodi a modificarlo quando il 3 maggio 2007: l’allora ministro della Giustizia Clemente Mastella, sentito in audizione formale dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa, preannunciò un disegno di legge governativo diretto a inasprire i contenuti della legge.
Il 41-bis, introdotto nel 1991 con il decreto Scotti-Martelli, ha visto la sua definitiva stabilizzazione nel 2002 con la legge n. 279. Nelle scorse settimane vi sono state molte polemiche sulla riduzione del numero dei detenuti soggetti a tale regime. Ciò sarebbe stato determinato dal forte incremento dei ricorsi, e, di conseguenza, dell’aumento degli annullamenti da parte della magistratura di sorveglianza dei provvedimenti applicativi del 41-bis. Alcuni dei punti presenti nel testo preannunciato dall’ex ministro Mastella sono oggi ricomparsi nel disegno di legge che ha come primo firmatario il senatore Carlo Vizzini, Presidente della Commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama. La proposta di modifica dell’attuale 41-bis si articola in tre punti:
l’innalzamento della durata del regime speciale sino a tre anni (e mai inferiore a due), a loro volta prorogabili; attualmente il limite massimo è invece di due anni mentre il limite minimo è di un anno;
l’inversione dell’onere della prova riguardante la cessazione del rapporto con l’organizzazione criminale di appartenenza facendola gravare sul detenuto, divenendo così una sorta di probatio diabolica; il detenuto deve specificatamente dimostrare che sia cessata la partecipazione o comunque ogni altra forma di collegamento o di contatto con il sodalizio criminoso di appartenenza ovvero ad altre organizzazioni criminali, terroristiche o eversive (oggi, viceversa, spetta all’amministrazione dimostrare la sussistenza del legame criminale con la cosca mafiosa);
la previsione della competenza territoriale sui reclami al solo Tribunale di Sorveglianza presso la Corte di appello di Roma, in modo, si afferma, da assicurare uniformità nell’applicazione della normativa ed evitare un’eccessiva eterogeneità di orientamenti giurisprudenziali da parte dei diversi tribunali.
Nei giorni immediatamente successivi all’annuncio del senatore Vizzini, in occasione del sedicesimo anniversario della morte di Paolo Borsellino, il ministro della giustizia Angelino Alfano, a sua volta, ha annunciato un inasprimento del 41-bis per via amministrativa con circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Viene disposto lo spostamento dei boss sottoposti al regime del 41-bis in celle lontane tra loro, allo scopo di evitare qualsiasi possibile contatto vocale. Nell’ipotesi di inosservanza della disposizione suddetta i detenuti potranno essere assoggettati a procedimento disciplinare.
Inoltre, viene ridotta ancora di più rispetto a oggi la possibilità di fare la socialità in gruppo, ossia di poter incontrare altri detenuti durante le ore di aria. La proposta di riforma troverà prevedibilmente la legittima resistenza dell’avvocatura e della magistratura di sorveglianza, la quale rischia di vedersi esautorate del tutto le proprie funzioni di controllo. Su questo tema sia le Camere Penali sia l’Associazione Nazionale Magistrati sono intervenute a difesa delle prerogative di controllo dei Giudici di Sorveglianza. D’altronde, sia la Corte europea dei diritti umani sia la Corte costituzionale hanno condizionato il loro sì al regime speciale solo in quanto la legge sia capace di garantire un effettivo ed efficace controllo giu-risdizionale sui provvedimenti amministrativi di compressione dei diritti dei detenuti che vi sono sottoposti, altrimenti il rischio è la violazione dell’articolo 27 della Costituzione. Il numero totale dei detenuti assoggettati al regime duro oggi sfiora le 600 unità. Erano 678 nel dicembre del 2002, nei giorni in cui veniva modificato l’articolo 41-bis della legge penitenziaria.
(nell'immagine) Chidi Okoye - "Rising"
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Immigrazione: nel Cpt, carcere e centro di prima accoglienza
Affari Italiani, 30 luglio 2008
Ci sono bambini ed ex detenuti. Donne nigeriane sbarcate a Lampedusa dopo viaggi di mesi in mezzo al deserto e lavoratori albanesi diventati clandestini per un vecchio precedente penale. Ragazzi algerini partiti in barca da Annaba che dicono "questo è un hotel" e tunisini che in arabo alzano la voce: "Iktab! - scrivi! - siamo ostaggi non ospiti".
Il centro di Gradisca d’Isonzo, provincia di Gorizia, dieci chilometri dalla Slovenia, è molte cose insieme. Contiene una sezione di prima accoglienza per i migranti intercettati nel Canale di Sicilia (Cda), un centro di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e un centro di identificazione e espulsione (Cie). È insieme un luogo di accoglienza e di detenzione.
Un alto muro grigio di cemento nasconde completamente la struttura agli abitanti di via Udine e agli automobilisti di passaggio. È tutto imbrattato dagli spray delle tante manifestazioni organizzate dall’Osservatorio sul Cpt, contro l’apertura del campo. "Un lager non è mai umanitario", si legge in giganteschi caratteri rossi. Tuttavia Gradisca è qualcosa di più.
Sul ciglio della strada appena fuori il centro passano con una certa regolarità gruppetti di tre quattro persone, a piedi. La pelle nera tradisce la loro identità straniera. Sono gli ospiti del centro. Per la maggior parte nigeriani e somali. Vanno a fare un giro in centro. La loro presenza ha destato preoccupazione nella cittadinanza, secondo quanto riportato dalla stampa locale. La città conta 6.451 abitanti. I richiedenti asilo ospiti del Cda e del Cara sono 250. Altri 20 sono ospitati a spese della prefettura nell’Hotel Pellegrino, a Gradisca. Altri 120 in un albergo ad Aviano. Sono autorizzati a lasciare il centro dalle 8 del mattino alle 20.
È sufficiente registrare la propria uscita alla polizia, in portineria. La maggior parte sono arrivati in Italia dalla Libia, sulle barche intercettate al largo di Lampedusa. Gli algerini invece sono approdati in Sardegna, salpando dalla città di Annaba. Li hanno trasferiti a Gradisca perché non c’era più posto nei centri in Sicilia, Calabria e Puglia. Aspettano l’esito della propria richiesta d’asilo politico, analizzata dalla Commissione per il riconoscimento dello status di rifugiato di Gorizia. Alcuni sono qua da cinque mesi. Le famiglie e le donne con bambini sono stati spostati negli appartamenti disponibili del sistema nazionale di accoglienza Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo). Gli altri alla fine dell’iter dovranno lasciare il centro e arrangiarsi. Perché di posti liberi nello Sprar ce ne sono davvero pochi.
Entrando nel centro, il Cara si trova sul lato destro. É un terra tetto con ampie camere a otto letti, disposto sui quattro lati intorno a un cortile di cemento e di fronte a un grande giardino. Per le donne ci sono camere a parte. Dal lato opposto si trovano invece le gabbie. Oltre il corridoio degli uffici del personale, un corridoio a ferro di cavallo intorno a un cortile grigio chiuso da reti di ferro dà accesso sulle camerate, sempre a otto letti. I cancelli sono aperti e gli ospiti possono uscire. È il centro di prima accoglienza. Dietro una porta di ferro si accede invece alla sezione del centro di identificazione e espulsione. Lì la gabbia è chiusa per davvero. Impossibile evadere. I detenuti sono 63 su una capienza di 136 posti letto. Soprattutto tunisini e marocchini. Aspettano lo scadere dei 60 giorni di detenzione. Sperando di non essere rimpatriati.
Le condizioni del centro sono buone. Tutto è pulito è ordinato. É la seconda fase della storia dei Cpt, istituiti dalla legge Turco Napolitano nel 1998 adesso rinominati Cie. Adesso è tutto più organizzato. Anche perché i soldi non mancano. Il centro di Gradisca, come gli altri centri, è anche e soprattutto un grande affare. Intorno alla sua gestione girano cifre a sei zero. Dalla sua apertura, nel marzo 2006, fino al marzo 2008, il centro era gestito dalla cooperativa sociale Minerva, appartenente a Legacoop.
Ma l’ultimo bando ha assegnato il campo al consorzio trapanese Connecting People. Una realtà che raggruppa 69 cooperative sociali in Italia e che ha fatto della gestione dei Centri di identificazione e espulsione e dei Centri di prima accoglienza uno dei suoi punti di forza. Sono infatti gestiti da Connecting People i centri di prima accoglienza di Cagliari, di Brindisi, di Trapani (Serraino Vulpitta e Saline), oltre che una serie di progetti Sprar in Sicilia, a Catania, Acireale, Marsala e Mazara.
Un giro d’affari di decine di milioni di euro. Soltanto il centro di Gradisca frutta tra i cinque e sei milioni di euro l’anno. L’indennità con cui il consorzio si è aggiudicato la gara d’appalto, è infatti di 42 euro al giorno per ogni ospite. Il che significa 13.146 euro al giorno per i 63 migranti attualmente detenuti al Cie (su una capienza di 136 posti), i 135 ospiti del Cara (su 138 posti) e i 112 del Cda (al completo).
Connecting People ha nominato direttore del centro un militare in pensione. Si chiama Vittorio Isoldi, ed è stato vice comandante della brigata cavalleria di Pozzuolo del Friuli e, fino allo scorso anno, vice comandante della missione italiana di pace in Libano. Nel settore dell’immigrazione è alla prima esperienza. Tra poco arriveranno a dargli manforte 100 militari, recentemente assegnati al centro dal pacchetto sicurezza.
Gli immigrati detenuti nel centro di identificazione e espulsione (Cie) di Gradisca, in provincia di Gorizia sono 63, poco meno della metà dei 136 posti disponibili. Dormono in camere da otto letti ciascuna. I materassi sono di gommapiuma, l’aria condizionata non c’è e nei bagni non ci sono specchi. Le stanze si affacciano su un corridoio a ferro di cavallo che gira sui tre lati di un cortile grigio di cemento, chiuso da una grande gabbia di ferro. Scorrendo il registro delle presenze, spiccano le nazionalità tunisina, marocchina, albanese, ma anche algerina, senegalese e macedone.
Alcuni sono arrivati qui dopo aver scontato una pena in carcere, gli altri dopo un controllo dei documenti. C’è chi vive in Italia da dieci anni e ha perso il permesso di soggiorno dopo aver perso il lavoro. E c’è chi il permesso non l’ha mai avuto. Uno di loro è un ragazzo palestinese. Viene da Gaza e vive in Italia dal 2003. Nei centri di identificazione e espulsione è già stato detenuto altre quattro volte, a Modena. Per un totale di otto mesi. E a Modena lo hanno fermato anche l’ultima volta. Lavorava in nero per un’agenzia di traslochi. Non ha mai chiesto asilo. Non sa nemmeno come si possa fare. A Gradisca è arrivato da sette giorni. E da sette giorni è in sciopero della fame. Rifiuta il cibo. Chiede la libertà. Per quattro giorni anche Qasseri, un ragazzo tunisino, ha scioperato. Ma poi ha interrotto la protesta.
Tra i detenuti ci sono molti lavoratori. Uno di loro si chiama Djibi e viene dal Senegal. Lavora come scultore. È detenuto al Cie da quaranta giorni. Sfoglia un album fotografico e mostra un’aquila scolpita in bassorilievo nel legno. Con gli artigli stringe un drappo con su scritto "Polizia di Stato". Gliela aveva commissionata la Questura di Salerno, per la festa della Polizia, nel maggio scorso. Due mesi dopo l’hanno arrestato durante una retata nel condominio dove viveva, a Bolzano. Insieme a lui hanno portato via sette persone. I documenti li ha persi insieme al lavoro. Era in Italia dal 2005. Lavorava con contratti interinali, per l’agenzia Adecco. L’ultimo contratto a termine è scaduto prima del permesso di soggiorno e così non lo ha potuto rinnovare.
Anche Sefa Skerdi lavorava. È albanese, sulla quarantina. Apre un borsone che tiene sotto il letto e mi mostra le ultime buste paga. Da dicembre 2006 a gennaio 2008. Milleduecento euro al mese. Autista per conto del corriere Alba, di Rimini. Vive in Italia dal 1998. Nel 2005 l’avevano arrestato per spaccio di droga. Era uscito con l’indulto dopo due anni di carcere. E si era rimesso a lavorare. Ma tutti i nodi vengono al pettine, e al momento del rinnovo del permesso, il precedente penale ha fatto saltare la pratica, come previsto dalla legge. Gli hanno ritirato i documenti e consegnato un foglio di via. Al primo fermo della polizia stradale, per il furgone fuori peso, l’hanno portato dentro. Lo dovrebbero rimpatriare nei prossimi giorni. Ma tutti i suoi effetti personali rimarranno nella casa a Rimini. E dei due finanziamenti in banca, per un totale di 70 mila euro, non sa che cosa succederà.
Ufficio Stampa
Centro Studi di Ristretti Orizzonti
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