lunedì 8 giugno 2009

se il grado di civiltà dell'Italia si misura dalle carceri!



www.nuovasocieta.it, 8 giugno 2009

tratto dalla rassegna di ristretti.it


Parlare oggi di carcere vuol dire parlare di una struttura che sta letteralmente scoppiando. Ce lo dicono sia i detenuti stessi che gli educatori ed i volontari. "La situazione sta precipitando anche in un carcere, fino a poco tempo fa considerato migliore di tanti altri, come la Casa di Reclusione di Padova - fanno sapere appunto i detenuti stessi dalla città veneta -. La terza branda che stanno aggiungendo in celle singole, già usate come doppie, rende lo spazio così invivibile, che il dirigente sanitario si è rifiutato di firmare l’abitabilità di quelle che, elegantemente, vengono chiamate "stanze di pernottamento". Purtroppo, mai come ora è stata attuale la vecchia idea di Voltaire che "il grado di civiltà di un Paese si misura osservando la condizione delle sue carceri".
Di carcere ne abbiamo parlato con Christian G. De Vito, per lungo tempo volontario nelle carceri di Firenze e Prato, ed ora autore del libro "Camosci e girachiavi - Storia del carcere in Italia" (ed. Laterza, 13 euro).

De Vito cosa pensa delle strutture carcerarie che stanno scoppiando?
"Esse sono il prodotto delle scelte compiute degli ultimi venti anni a livello politico, in particolare con riferimento all’immigrazione e alle tossicodipendenze. Se non si torna indietro su quelle scelte, non si potranno avere carceri meno piene. Si penserà invece di costruire più carceri, come sembra voler fare il governo con il "piano carceri" di cui si parla in questi giorni; ben sapendo che, anche ammesso che saranno costruiti, i diciassettemila nuovi posti letto si riempiranno prestissimo e serviranno solo a stimolare un ulteriore incremento della repressione e delle retoriche della sicurezza.
Quella delle carceri che scoppiano del resto è una vicenda non solo italiana, ma mondiale, che rimanda all’affermarsi a livello globale di politiche neoliberiste: basti pensare agli Stati Uniti, passati in trenta anni da 300.000 a oltre 2.000.000 di detenuti. Una tendenza che riguarda anche paesi tradizionalmente riformatori in ambito penitenziario, come quelli scandinavi o i Paesi Bassi.
Del resto, il problema delle carceri che scoppiano non è solo una questione di numeri. Il sovraffollamento, che ne è la principale traduzione concreta, vuol dire vivere per ore e ore in pochi metri quadrati con tre, quattro e talvolta anche otto o nove persone. È una situazione inumana e del tutto illegale, che pone con urgenza la questione di fare qualcosa, di una strategia alternativa a quella repressiva che domina"

Eppure c’è chi dice che in carcere si sta bene, che "stanno come in albergo". È veramente così?

"Assolutamente no. I cittadini e le cittadine, e anche tantissimi uomini e donne politici, dovrebbero vedere le carceri prima di fare affermazioni del genere. Dovrebbero vedere le celle con i letti a castello a quattro piani, dove si mangia seduti sui letti perché perfino gli sgabelli di legno sono spesso insufficienti rispetto al numero dei detenuti presenti. Dovrebbe vedere anche questi famosi televisori nelle celle, che così spesso vengono dipinti come il simbolo stesso del "carcere albergo" e che invece nella realtà del carcere sono una trappola infernale, perché avere come unica attività per ore e ore e per molti mesi quella di stare davanti a un televisore è un supplemento di condanna, non certo un lusso.
No, le carceri non sono degli alberghi. Sono istituzioni dove mancano le cose anche più semplici, dove ogni detenuto vede negati anche diritti fondamentali come quello alla salute. Sono anche luoghi di violenze, sia nella forma dei continui arbitri e ricatti, sia in quella delle vere e proprie violenze fisiche, molto meno rare di quanto si pensi"

Nella situazione che lei descrive il carcere, si può ancora parlare di struttura rieducativa per chi ha commesso reati?
"La logica della rieducazione è vecchia come il carcere stesso. L’idea della punizione si è sempre accompagnata con quella di riempire il tempo trascorso in carcere di attività che modificassero la personalità e lo stile di vita dei detenuti. È da questo che derivano già nell’Ottocento i principi dell’individualizzazione del trattamento e della specializzazione delle carceri; questo è il senso anche della pena "rieducativa" definita nell’art.27 comma 3 della Costituzione italiana.
Tali principi a seconda dei casi sono stati tradotti in termini strettamente clinici (dalla scuola della "difesa sociale" negli anni Cinquanta e Sessanta) o in termini morali-religiosi (come "redenzione" del condannato). Dalla metà degli anni Settanta, la riforma del 1975 e poi la legge Gozzini del 1986 hanno dato un’interpretazione più legata all’idea del reinserimento sociale, ma ciò si è anche coniugato con meccanismi premiali all’interno del carcere: in sostanza, la massa dei detenuti è stata divisa in tanti settori o "circuiti" (massima sicurezza, media sicurezza, custodie attenuate, sezioni per tossicodipendenti, reparti di osservazione psichiatrica), mentre ogni detenuto è stato spinto a mantenere comportamenti conformi alle regole penitenziarie, per evitare di perdere la possibilità di ottenere vari "benefici", come il lavoro interno e poi esterno, la semilibertà, l’affidamento in prova al servizio sociale. Ciò che era stato concepito come uno strumento di decongestionamento del carcere è tuttavia diventato sempre più uno strumento di controllo di una popolazione carceraria in costante aumento; parallelamente, le misure alternative hanno perso ogni loro "alter natività" rispetto alla detenzione, divenendo complementari all’aumento della popolazione carceraria.
Nel frattempo, è mutata radicalmente la composizione della popolazione detenuta. Le riforme degli anni Settanta e Ottanta erano rivolte a un detenuto-tipo di nazionalità italiana, con la possibilità di reinserirsi a livello abitativo e lavorativo in un tessuto sociale preesistente. Fino a un certo punto questa configurazione si è potuta adattare alla realtà dei detenuti tossicodipendenti, per i quali tuttavia vi erano delle esigenze anche sanitarie alle quali lo sviluppo delle comunità, dei Ser.T. e delle sezioni a custodia attenuata ha risposto in maniera sempre solo parziale. Oggi la realtà è ulteriormente mutata: se si pensa che nelle maggiori carceri ormai gli immigrati sono oltre il 50% dei detenuti, si può capire quanto questo modello di intervento sia superato, o quantomeno marginale, rispetto a un carcere che svolge una funzione puramente contenitiva e repressiva.
Analizzando le cose in questi termini secondo me si può capire la crisi permanente nella quale si dibattono sempre più tutte le attività trattamentali e i progetti ad esse ispirate: sono strutturalmente condannati ad una marginalità sia numerica che simbolica, ad inseguire inutilmente una vera e propria alluvione di detenuti e di disuguaglianza sociale. Sono processi che provengono dall’esterno del carcere e che hanno molto a che fare con le trasformazioni del mercato del lavoro e con il progressivo smantellamento anche di quel poco di welfare che era stato edificato a partire dagli anni Settanta. A questo va aggiunto un altro elemento: alla prospettiva del "reinserimento" dei detenuti, in Italia, le autorità politiche non hanno mai veramente creduto. Lo dimostra il fatto che le risorse per queste attività sono da sempre incomparabilmente inferiori rispetto a quelle riferite alla funzione custodiale del carcere. Si può trovare prova di questo in ogni carcere, basta comparare il numero degli agenti di polizia penitenziaria a quello degli educatori: nel carcere di Firenze, per esempio, dove ci sono in questo momento 940 detenuti a fronte di una capienza di 470 posti, ci sono 420 agenti e 5 educatori"

Cosa si può pensare in alternativa al carcere in Italia oggi?
"La mia ricerca storica sul sistema penitenziario dal 1943 ad oggi credo metta in luce, tra le altre cose, il fallimento del riformismo penitenziario. La crisi della ideologia della "rieducazione" è infatti solo un aspetto di una marginalizzazione complessiva della prospettiva di trasformazione dell’istituzione penitenziaria. Di fatto, attraverso i decenni, il carcere ha continuato sempre a funzionare come una discarica sociale nella quale sono stati sistematicamente riversati i rifiuti dei processi socio-economici che avvenivano al di fuori delle mura di cinta. Per altro verso, tutta l’idea che il periodo trascorso in carcere potesse favorire un successivo reinserimento dei detenuti si è scontrata, oltre che con i limiti già detti dell’area "trattamentale", con un sistema di assistenza sociale del tutto insufficiente e con il permanere di radicati pregiudizi nella popolazione. Basta vedere cosa è successo quando c’è stato l’indulto del 2006: gli indultati uscivano dalle carceri con sulle spalle i sacchi neri dell’immondizia dove avevano i loro vestiti e fuori trovavano qualche volontario, nel disinteresse pressoché totale delle istituzioni. Anche il tanto sbandierato rientro in carcere degli indultati - rimasto in verità su tassi straordinariamente bassi - è derivato da questo processo di abbandono sociale piuttosto che da una presunta "tendenza criminale" di quelle persone.
Bisogna quindi ripensare le strategie di trasformazione del carcere, tenendo presente il collegamento tra il carcere e la società. Occorre dunque innanzitutto smantellare l’apparato securitario messo in campo negli ultimi due decenni: dalla legislazione speciale su tossicodipendenti (legge Fini-Giovanardi) e immigrati (legge Bossi-Fini), alle tante ordinanze comunali dal chiaro impasto razzista; dalle norme che hanno rafforzato i sindaci e le prefetture a quelle che hanno equiparato di fatto le polizie locali alle forze dell’ordine. Su questa base mutata, occorre finalmente procedere all’approvazione di un nuovo codice penale che depenalizzi una serie di reati minori, favorisca sistematicamente la concessione di misure alternative sin dalla fase del giudizio e proceda all’abolizione di quella autentica tortura che è l’ergastolo. L’ulteriore potenziamento di misure alternative in fase di esecuzione penale dovrà poi andare di pari passo con la strutturazione di politiche sociali non più frammentate per settori assistenziali, ma integrate a livello di enti locali e di aree metropolitane. È da questo nuovo protagonismo della politica, che per troppo tempo e tuttora delega ai tecnici gli assetti dell’universo carcerario, che possono scaturire le condizioni per processi di abolizione di alcune parti del sistema penitenziario. Ne indico come esempio alcune per le quali l’abolizione appare tanto urgente quanto rapidamente praticabile: gli ospedali psichiatrici giudiziari e le sezioni psichiatriche, attraverso la presa in carico di quanti sono internati da parte dei servizi di salute mentale territoriali; le carceri minorili, estendendo le strutture di accoglienza in modo da poter estendere i benefici previsti dalle leggi attuali anche ai minori immigrati, che sono di fatto gli unici "ospiti" di tali strutture; le sezioni "nido" delle carceri femminili, dove bambini al di sotto dei tre anni sono incarcerati insieme alle loro mamme detenute.

È realistica questa strategia?
Io credo di sì, a patto che non solo ci sia una attenzione maggiore della politica e dell’opinione pubblica attorno alla "questione carcere", ma che anche i detenuti facciano sentire la loro voce, prendendo coscienza del loro ruolo fondamentale nel cambiare il carcere. La mobilitazione dei detenuti è un fattore determinante. Non dimentichiamoci infatti che l’unico momento di effettiva rottura e di cambiamento nella storia del carcere nell’Italia repubblicana si è avuto a seguito delle grandi rivolte e proteste dei detenuti, in particolare tra il 1969 e il 1973. Senza quei movimenti, che sono costati anche vittime tra i detenuti, non ci sarebbero state probabilmente neppure le limitate riforme del carcere del 1975 e del 1986"

Ha condiviso l’indulto di qualche estate fa? Si è risolto qualcosa per ciò che è l’affollamento delle strutture carcerarie con questa a dir poco bizzarra decisione?

"Ho condiviso l’indulto e, anzi, ho attivamente partecipato alla mobilitazione per l’indulto sin dal 2000, organizzando insieme ad altre persone, dibattiti, banchetti informativi e presidi di solidarietà sotto alcune carceri dove i detenuti si mobilitavano in questo senso. Chiedevamo - i detenuti e noi di tante associazioni e gruppi - un indulto generalizzato accompagnato dall’amnistia, dal rovesciamento delle politiche su immigrazione e tossicodipendenza e da un intervento finanziario specifico che destinasse risorse alle carceri e alle strutture per le misure alternative. L’indulto/amnistia lo concepivamo come una sorta di risarcimento per le condizioni vergognose in cui i detenuti erano stati tenuti in carcere, ma anche come un punto di svolta possibile sulle politiche del carcere.
Lo voglio ripetere: secondo me l’indulto era giusto e necessario. Le modalità con cui è stato fatto rivelano invece contraddizioni che sono tutte interne al mondo politico istituzionale, il suo sostanziale disinteresse rispetto alle condizioni concrete di migliaia di detenuti e l’autoreferenzialità di scelte fatte in nome degli equilibrismi partitici. Non a caso, dal momento successivo all’approvazione dell’indulto, quasi tutti i politici hanno fatto a gara per lavarsene le mani e per invocare nuovi provvedimenti per la "sicurezza". In ogni caso, se attualmente siamo ritornati ai numeri pre-indulto e, anzi, li abbiamo ormai anche superati, ritengo che ciò sia da imputare non all’indulto, ma alla mancata volontà politica di fare dell’indulto un momento di riflessione e di svolta più ampio rispetto alla "questione carcere".

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