di Laura Sanna
La Nuova Sardegna, 1 giugno 2009
La Nuova Sardegna, 1 giugno 2009
Il carcere e le alternative alla detenzione per rimettere in libertà "un uomo diverso e non solo una persona che ha scontato la sua pena". Questo il senso dell’incontro promosso dalla Società Operaia nel quale è stato presentato il libro di Paolo Pisu (Figli della società), ex consigliere regionale di Rifondazione comunista che, nel suo mandato, ha svolto un’inchiesta sul funzionamento delle carceri sarde.
I costi economici e sociali della detenzione e parallelamente gli scarsi risultati ottenuti sul fronte della rieducazione fanno dire al politico che il carcere, come istituzione, ha fallito. "Anche solo per un discorso egoistico e non umanitario bisognerebbe cercare un’alternativa al carcere". Sono le parole con cui Paolo Pisu sintetizza i risultati di due anni e mezza di ispezioni negli istituti di pena della Sardegna, tra il 2004 e il 2007, quando, come presidente della commissione consiliare per i diritti civili promosse un’inchiesta per verificare le condizioni di detenuti e lavoratori.
Un lavoro che nasceva in seguito a fatti molto gravi avvenuti in alcuni penitenziari, tra cui anche quello cittadino. Proprio la casa circondariale di Iglesias in quegli anni fa teatro di proteste da parte dei detenuti: costruito per ospitare circa 60 detenuti e con una dotazione di 60 agenti, era arrivato proprio tra 2004 e 2005 al massimo della capienza, con circa 110 detenuti ospiti sorvegliati da un numero di guardie che nel frattempo era sceso a una cinquantina, come ha spiegato Stefano Pilleri, guardia carceraria e rappresentante sindacale della Uil.
A questa situazione già esplosiva si aggiunse un guasto all’impianto di riscaldamento dell’acqua e i detenuti portarono avanti per alcuni giorni una protesta rumorosa: oggetti sbattuti contro le sbarre. Sempre in quegli anni era però avvenuto anche un altro fatto: un detenuto extracomunitario aveva perso la sua dentiera ma nessuno prestava attenzione a quello che per lui era un problema molto grave e per protesta decise di cucirsi la bocca con il filo di ferro: un atto di autolesionismo impressionante ma non raro nelle carceri di tutto il mondo, dove accade che i detenuti si cuciano allo stesso modo anche le palpebre.
Anche perché gli stranieri sono "emarginati tra gli emarginati - spiega Caterina Moro, volontaria della Caritas che da 12 anni aiuta i detenuti dell’istituto di Iglesias - che non hanno la consolazione dei colloqui settimanali con i parenti o i pacchi spediti dai famigliari". Da 12 anni le volontarie in carcere sono solo due, segno che è ancora una realtà separata, davanti alla quale, "si gira colpevolmente la faccia - come ha detto Pisu - mentre è importante sapere che chi finisce in una cella è solo il meno fortunato tra tutti quelli che delinquono e la fanno franca. In carcere si divide per anni una cella di pochi metri quadri con altri sei o sette detenuti. Senza possibilità di lavorare oppure istruirsi, si è condannati all’ozio forzato oltre che alla detenzione".
Una vita senza speranze con un costo sociale molto alto: tra chi ha scontato la sua pena dietro le sbarre la recidiva è di oltre il settanta per cento mentre per chi ha scontato pene alternative e ha lavorato, la recidiva scende al 12-13 per cento, con punte del sei per i detenuti non tossicodipendenti.
Anche in città su questo fronte qualcosa si sta muovendo, per mano della cooperativa San Lorenzo e con l’impegno di don Benizzi, per anni cappellano della casa circondariale di Iglesias: dal laboratorio di lavorazione dell’alluminio al progetto Solki, che ha trasformato in agricoltori venticinque detenuti nella tenuta agricola di Terramanna, si insegna ai detenuti un mestiere e gli si offre uno stipendio. E per il momento a Terramanna non c’è bisogno di guardie.
I costi economici e sociali della detenzione e parallelamente gli scarsi risultati ottenuti sul fronte della rieducazione fanno dire al politico che il carcere, come istituzione, ha fallito. "Anche solo per un discorso egoistico e non umanitario bisognerebbe cercare un’alternativa al carcere". Sono le parole con cui Paolo Pisu sintetizza i risultati di due anni e mezza di ispezioni negli istituti di pena della Sardegna, tra il 2004 e il 2007, quando, come presidente della commissione consiliare per i diritti civili promosse un’inchiesta per verificare le condizioni di detenuti e lavoratori.
Un lavoro che nasceva in seguito a fatti molto gravi avvenuti in alcuni penitenziari, tra cui anche quello cittadino. Proprio la casa circondariale di Iglesias in quegli anni fa teatro di proteste da parte dei detenuti: costruito per ospitare circa 60 detenuti e con una dotazione di 60 agenti, era arrivato proprio tra 2004 e 2005 al massimo della capienza, con circa 110 detenuti ospiti sorvegliati da un numero di guardie che nel frattempo era sceso a una cinquantina, come ha spiegato Stefano Pilleri, guardia carceraria e rappresentante sindacale della Uil.
A questa situazione già esplosiva si aggiunse un guasto all’impianto di riscaldamento dell’acqua e i detenuti portarono avanti per alcuni giorni una protesta rumorosa: oggetti sbattuti contro le sbarre. Sempre in quegli anni era però avvenuto anche un altro fatto: un detenuto extracomunitario aveva perso la sua dentiera ma nessuno prestava attenzione a quello che per lui era un problema molto grave e per protesta decise di cucirsi la bocca con il filo di ferro: un atto di autolesionismo impressionante ma non raro nelle carceri di tutto il mondo, dove accade che i detenuti si cuciano allo stesso modo anche le palpebre.
Anche perché gli stranieri sono "emarginati tra gli emarginati - spiega Caterina Moro, volontaria della Caritas che da 12 anni aiuta i detenuti dell’istituto di Iglesias - che non hanno la consolazione dei colloqui settimanali con i parenti o i pacchi spediti dai famigliari". Da 12 anni le volontarie in carcere sono solo due, segno che è ancora una realtà separata, davanti alla quale, "si gira colpevolmente la faccia - come ha detto Pisu - mentre è importante sapere che chi finisce in una cella è solo il meno fortunato tra tutti quelli che delinquono e la fanno franca. In carcere si divide per anni una cella di pochi metri quadri con altri sei o sette detenuti. Senza possibilità di lavorare oppure istruirsi, si è condannati all’ozio forzato oltre che alla detenzione".
Una vita senza speranze con un costo sociale molto alto: tra chi ha scontato la sua pena dietro le sbarre la recidiva è di oltre il settanta per cento mentre per chi ha scontato pene alternative e ha lavorato, la recidiva scende al 12-13 per cento, con punte del sei per i detenuti non tossicodipendenti.
Anche in città su questo fronte qualcosa si sta muovendo, per mano della cooperativa San Lorenzo e con l’impegno di don Benizzi, per anni cappellano della casa circondariale di Iglesias: dal laboratorio di lavorazione dell’alluminio al progetto Solki, che ha trasformato in agricoltori venticinque detenuti nella tenuta agricola di Terramanna, si insegna ai detenuti un mestiere e gli si offre uno stipendio. E per il momento a Terramanna non c’è bisogno di guardie.
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