domenica 19 ottobre 2008

"Allarme carceri. Alfano è un ministro senza soluzioni"


di Riccardo Arena
da Radio Carcere

Roma 14 ottobre 2008. Ore 13.13. Il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, è dinanzi alla commissione giustizia della Camera per relazionare sulla condizione delle carceri.

“Questa notte hanno dormito nelle carceri italiane 57.187 detenuti.” Afferma il Ministro. Un’affermazione importante. E’ la misura del sovraffollamento. Infatti, la capienza regolamentare delle nostre carceri è di 43.262 posti. Il che vuol dire che oggi ci sono circa 14 mila detenuti in più.
Anzi no! Il numero del sovraffollamento è ancora maggiore. E già perché il Ministro, con onestà, subito precisa: “La capienza regolamentare di 43 mila posti è solo virtuale. Nella realtà, per ragioni strutturali o per mancanza di personale, possiamo contare solo su 37.742 posti.” Una seconda affermazione del Ministro Alfano che contraddice quanto ha sempre affermato Roberto Castelli mentre era Guardasigilli. Un’affermazione che ci consegna una realtà più drammatica rispetto a quella che ci immaginiamo. La realtà è: nelle carceri ci sono 20 mila detenuti in più. E non 14 mila. Una differenza non da poco.

La relazione del Ministro prosegue fotografando in modo preciso la realtà delle italiche prigioni. Prigioni non solo sovraffollate ma anche vecchie. Secondo il Ministro, infatti, il 50% delle carceri devono essere chiuse perché vetuste. Infatti tra queste il 20% è stato realizzato tra il 1200 e il 1500. Mentre il restante 30% risale all’800. Poi, il Ministro snocciola i dati sui detenuti. La ragione della loro detenzione. La nazionalità. “Su 57.187 detenuti solo 24.285 sono condannati, mentre gli altri sono in attesa di giudizio.” Tradotto: le nostre carceri sono sì sovraffollate, ma da presunti non colpevoli! Ed ancora. “Su 57.187 detenuti, 21.366 sono stranieri. Ovvero il 38%” Come dire che le carceri sono sì sovraffollate, ma non da italiani!

A questo proposito il Ministro spiega che ciò che non funziona è il meccanismo dell’espulsione dello straniero. Espulsione prevista nella legge Bossi-Fini.Non a caso, precisa Alfano, nel 2007 le espulsioni sono state solo 282. Mentre, fino al giugno del 2008, appena 150. Ma non è tutto. Secondo il Guardasigilli, c’è un enorme via vai di detenuti che resta in carcere per pochi giorni e poi esce. Un flusso impressionante, una marea umana di 170 mila persone all’anno. Punto. Si, punto. Perché finisce qui la parte della relazione del Ministro sul dato reale delle carceri. Sulla loro attuale condizione.

Si passa alle soluzioni. Poche e poco convincenti. Il Ministro dice che è meglio ampliare le carcere esistenti che costruirne di nuove. Uno spunto interessante ed anche più economico. Infatti creare in un carcere 200 posti nuovi costa circa 10 milioni di euro, mentre costruirne uno di sana pianta costa circa 50 milioni. Peccato che il Ministro appaia legato alla vecchia logica del cemento e non sembra aver verificato la validità di nuove tecniche di costruzione. Ovvero di quelle strutture prefabbricate, brevettate negli Usa ma disponibili anche in Italia, che costano meno e hanno dei tempi di realizzazione minori. Nuove tecnologie che consentirebbero di costruire un padiglione da 200 posti in un anno, e non in tre, al costo di 6 milioni di eruo.

Ed ancora. Il Ministro lamenta la mancanza di soldi per la realizzazione di nuove carceri. E’ possibile. Peccato che il Ministro non abbia però predisposto un progetto per reperire le risorse che già oggi sarebbero disponibili. Come le ingenti risorse finanziarie ricavabili dalla vendita delle vecchie carceri che, situate nei centri storici delle nostre città, hanno un notevole valore sul mercato immobiliare. Peccato che il Ministro non abbia reso concreta l’idea, a suo tempo scritta su questa pagina dall’attuale Ministro della Difesa Ignazio La Russa, di utilizzare le caserme disabitate per detenere chi è in misura cautelare e non è pericoloso.

Poi il Ministro si sofferma su quei 170 mila detenuti che subiscono ogni anno detenzioni brevi. Per risolvere il problema suggerisce di detenere nelle camere di sicurezza della polizia giudiziaria e non in carcere chi è sottoposto a fermo. Inoltre afferma che sarebbe il caso di non portare l’arrestato dinanzi al giudice per la convalida, se non in casi eccezionali. Ora, a parte che sarebbe utile capire dove la polizia giudiziaria possa mettere nelle proprie strutture 170 mila detenuti all’anno, sembra che il Ministro dimentichi qualcosa. Ovvero il principio sacrosanto previsto dalla legge per cui l’essere presente dinanzi al giudice è un diritto dell’arrestato. Un diritto a cui solo lui può giustamente rinunciare.

Infine, il Ministro ha parlato dei bambini detenuti. Della necessita di imitare l’esperienza di Milano, l’unica in Italia dove 12 bambini e le loro mamme sono stati fatti uscire dal carcere e portati in un appartamento “protetto”. Peccato che in tutta Italia sono una sessantina questi bambini detenuti. Un numero talmente ridotto da rendere immediatamente realizzato, e non solo annunciato, il felice precedente di Milano. Fine delle soluzioni indicate dal Ministro. Parole, parole, parole. Non un progetto concreto. Non una prospettiva utile e innovativa.

5 commenti:

Roberto Loddo ha detto...

Uil: Finanziaria taglia i fondi per le carceri del 30%



Agi, 18 ottobre 2008



"Voglio dirlo con estrema chiarezza perché ancora c’è il tempo di correre ai ripari: con la prevista legge finanziaria il sistema penitenziario faticherà a reggere nel prossimo anno. A rischio è addirittura il diritto alla difesa per persone imputate e detenute". A lanciare l’allarme è Eugenio Sarno, Segretario Generale della Uil-Pa (Pubblica amministrazione) Penitenziari, intervenuto a Bari ad un dibattito sulla sicurezza.

"Voglio sperare che il Ministro Alfano approfondisca immediatamente la questione dei tagli indiscriminati previsti al sistema carcere. Con l’inarrestabile aumento della popolazione detenuta, oramai a 57mila unità, trovo francamente contraddittorio e rischioso - sottolinea Sarno - prevedere tagli sostanziosi finanche ai fondi per le spese di vitto e mantenimento. Evidentemente non è solo una operazione matematica, altrimenti non si spiegano i tagli del 30%. Voglio chiarire che questi tagli incideranno direttamente sulla qualità del vitto e sulla possibilità di remunerare il lavoro intramurario. Si costringono, di fatto, i detenuti all’ozio. Ovvero si creano le condizioni ottimali all’insofferenza, all’intolleranza e alla violenza. Tutto ciò coniugato alla mancanza di spazi e alle deficienti condizioni strutturali degli istituti costituisce una miscela esplosiva che non tarderà a deflagrare".

La Uil-Pa Penitenziari si dice preoccupata anche per i tagli al servizio Traduzioni e allo straordinario del personale addetto. "Un altro 30% di tagli - continua Sarno - è previsto per le spese al servizio Traduzioni e per le missioni del personale. Questo comporterà, tra l’altro, il mancato acquisto di mezzi nuovi e idonei. Ad oggi il parco macchine è vetusto e inadeguato. Tantissimi sono i mezzi che se in uso a privati sarebbero oggetto di immediato sequestro. Per questo se il parco mezzi non sarà immediatamente e idoneamente integrato potrebbero non essere garantite la traduzioni dei detenuti in udienza.

Si affermerebbe, in tal modo, una gravissima violazione al principio costituzionale del diritto alla difesa per le persone detenute. Nel qual caso, ovviamente, le responsabilità non potranno riferirsi al personale della polizia penitenziaria che già oggi è costretto ad anticipare fondi propri per garantire il servizio svolto permanentemente in precarie condizioni di operatività. Frenare il pendolarismo giudiziario - conclude Sarno - si può, basta avere la volontà di approcciare al problema.

Ma quando si viaggia con autovetture nuove ed efficienti, per giunta scortati, certi problemi potrebbero anche non interessare. Per questo faccio appello ai tanti parlamentari che hanno sempre dichiarato di avere a cuore il sistema carcere ad intraprendere ogni utile iniziativa atta ad impedire che la mannaia della finanziaria si abbatta con inusitata ferocia su un sistema già agonizzante".

Roberto Loddo ha detto...

caso Bianzino: la famiglia chiede "nuove indagini"



La Nazione, 18 ottobre 2008



I parenti di Aldo Bianzino vogliono dimostrare che il falegname fu ucciso in carcere. Tra le circostanze anomale sottolineate dai difensori dei familiari, la posizione del corpo sulla branda, l’essere nudo in periodo autunnale, l’immediato trasferimento del corpo fuori dalla cella e la sua deposizione avanti la porta chiusa dell’infermeria.

L’immediata iscrizione nel registro degli indagati del personale in servizio nella sezione del carcere di Capanne la notte in cui morì Aldo Bianzino, una perizia medico-legale che sgombri il campo da equivoci e stabilisca le cause della morte del falegname di 44 anni in cella per aver coltivato alcune piantine di canapa indiana; accertamenti sui tabulati telefonici degli agenti di turno e un’analisi dei filmati delle telecamere a circuito chiuso.

Tutto questo per dimostrare che - come ritiene la famiglia - Bianzino fu ucciso: l’avvocato Massimo Zaganelli che assiste la compagna e il figlio elenca le sue richieste istruttorie davanti al gip Massimo Ricciarelli che dovrà decidere sull’opposizione alla richiesta di archiviazione. E la storia del detenuto morto in cella ricomincia a fare rumore. Il pm Giuseppe Petrazzini ha ritenuto insussistente l’ipotesi di omicidio volontario chiedendo al giudice l’archiviazione del fascicolo aperto contro ignoti.

Ad avviso della procura, forte della consulenza medico-legale, il decesso del detenuto fu dovuto a cause naturali, ovvero la rottura di un aneurisma cerebrale. "Le indagini eseguite - scrive il pm - non hanno consentito di evidenziare, anche nella forma del minimo sospetto, l’esistenza di aggressioni del Bianzino, né occasioni in cui le stesse potessero essersi verificate". Richiesta alla quale i familiari hanno presentato opposizione: istanza discussa ieri mattina in aula.

L’avvocato Zaganelli, insieme ai colleghi Donatella Donati e Cristina Di Natale, ha illustrato le conclusioni del consulente medico-legale, Giuseppe Fortuni secondo il quale la morte fu dovuta ad un "violento trauma addominale da schiacciamento con conseguente lacerazione epatica, crisi ipertensiva arteriosa correlata alla sintomatologia dolorosa e alla paura con conseguente reazione adrenergica e successiva rottura di una sacca aneurismatica di una vaso arterioso cerebrale".

In sostanza mentre secondo gli esperti del pm non c’è alcun nesso tra la lesione al fegato - dovuta alle manovre rianimatorie - e l’aneurisma, per Fortuni il nesso c’è ed è provato dal fatto che la lesione epatica avvenne in vita mentre quando i medici praticarono i massaggio Bianzino era già morto. In aula il legale ha parlato di "istruttoria lacunosa che non ha consentito di far luce su una vicenda oscura". Tra le circostanze anomale sottolineate dai difensori dei familiari (si sono fatti avanti l’ex moglie, il padre e il fratello) la posizione anomala del corpo sulla branda, l’essere nudo in periodo autunnale, l’immediato trasferimento del corpo fuori dalla cella e la sua deposizione avanti la porta chiusa dell’infermeria.

Circostanze ritenute strane anche dal medico e dall’infermiere. "Di fatto - scrive l’avvocato Zaganelli nella richiesta di opposizione - pur in presenza di un’ipotesi di omicidio, incomprensibilmente la cella e gli oggetti ivi contenuti non vennero sottoposti a sequestro, né disposte indagini tecnico scientifiche... pure la nudità del corpo - sottolinea - poteva suggerire l’ipotesi di un oltraggio fisico o morale anteriore al decesso che si presume sia stato portato a immediata conoscenza del direttore, dell’ispettore capo e dei medici del carcere". Ora la soluzione del caso Bianzino, che tante polemiche ha sollevato, passa al gip che entro dieci giorni dovrà dire se riaprire l’inchiesta oppure chiudere per sempre il giallo del morto in cella.

Rifondazione Libera ha detto...

l’Italia "indietro" sul rispetto dei diritti dei detenuti



Redattore Sociale - Dire, 14 ottobre 2008



L’Italia indietro sul rispetto dei diritti dei detenuti. Garanti poco liberi di intervenire nei penitenziari. Alla Conferenza dei Garanti regionali anche la proposta di un insegnamento universitario in "architettura penitenziaria".

Ai Garanti dei detenuti italiani non è ancora concesso di accedere liberamente agli istituti penitenziari e di svolgere il loro compito liberamente. È questa una delle problematiche affrontate oggi alla Conferenza nazionale dei Garanti regionali dei diritti dei detenuti, tenutasi a Roma, in occasione della presentazione di un Ddl per l’istituzione del Garante nazionale e per il reato di tortura. Secondo Angiolo Marroni, Garante per la Regione Lazio, oggi la figura del garante sta attraversando un periodo difficile per la stessa sopravvivenza del ruolo. "Oggi i garanti si trovano in una situazione di empasse - spiega Marroni -.Un Garante dei detenuti, infatti, è tale solo se riesce ad entrare nelle carceri quando vuole e senza preavviso, se può parlare liberamente e riservatamente con i detenuti, se può accedere a tutte le aree degli istituti, se può prendere visione ei fascicoli e dei documenti relativi ai detenuti".

Sulla figura del garante nazionale c’era stato l’interesse delle passate legislature, ciononostante mancano ancora i suggelli di una legge. Rispetto agli altri paesi europei sul la tutela dei diritti umani ed il rispetto della popolazione detenuta, l’Italia è ancora indietro. Esperienze avanzate si possono trovare non solo nei paesi scandinavi come la Finlandia, Danimarca e Norvegia, ma anche in paesi come Svizzera, Austria, Ungheria e Olanda. Ultimamente anche in Portogallo sono stati istituiti organismi a tutela dei diritti dei detenuti. Nonostante i ritardi l’interesse trasversale del mondo politico non manca. "La figura del Garante per la tutela dei diritti dei detenuti - spiega il senatore e Garante per la Sicilia, Salvo Fleres - è fondamentale per garantire il rispetto di quanto contenuto nella nostra costituzione in materia di modalità di esecuzione della pena e funzione riabilitante della stessa. La situazione carceraria italiana necessita di una particolare attenzione. Non è pensabile che in un paese civile le strutture penitenziarie non siano in grado per problemi organizzativi e soprattutto per il sovraffollamento di garantire l’attuazione della Costituzione".

L’interesse verso la figura del garante, tuttavia, sta crescendo in tutte le regioni italiane, alimentato soprattutto dal numero di richieste d’intervento, motivo per cui oggi si sta chiedendo una figura nazionale. "Da quando il mio ufficio è divenuto operativo - spiega Marrone -, abbiamo svolto più di 5 mila incontri presso gli istituti penitenziari del Lazio, firmato 28 protocolli d’intesa, attivato e promosso progetti in tutti i settori d’interesse per il mondo penitenziario ed infine informare su ciò che accade all’interno degli istituti penitenziari. Il diffondersi di quest’esperienza ci ha spinto a creare un soggetto che ci riunisse tutti, per rappresentare con una sola voce le questioni comuni". Dall’impegno dei garanti, anche una proposta singolare: promuovere un insegnamento universitario presso le facoltà di architettura che tenga conto dei bisogni dei detenuti. "Le strutture degli edifici spesso sono inadeguate - spiega il sen. Fleres -. Da nessuna parte esiste una materia universitaria che si chiama architettura penitenziaria. Quasi nessuno dei progettisti di un carcere, quando vince un appalto, è in grado di realizzare una struttura adatta. Ci stiamo occupando anche di questo perché dopo l’esperienza di Catania del Master in criminologia e diritto penitenziario stiamo pensando di promuovere proprio un progetto che preveda l’architettura penitenziaria".

Rifondazione Libera ha detto...

‘Ecco come entra la droga in carcere’

Il resto del carlino
di CARLO RAGGI

C’È UN ALTRO detenuto che dice di aver consegnato denaro a un agente di polizia penitenziaria. L’agente è lo stesso che già un altro detenuto e diversi avvocati penalisti hanno indicato come un assiduo ricettore di somme. E non da oggi, ma da anni.
Il detenuto è un ragazzo ravennate che ha consegnato mille euro. La richiesta era stata fatta dall’agente, sotto forma di prestito. I due, a quanto pare, si conoscevano da anni, ben da prima che una serie di disavventure conducesse nei guai giudiziari per due volte, dal 2004 al 2006, il giovane ravennate. Quella del prestito pare fosse la motivazione prevalente adottata dall’agente anche con gli avvocati. In quel periodo il giovane ravennate era in attesa del provvedimento di semilibertà: un provvedimento per il quale c’erano tutte le necessarie condizioni richieste, ma che ancora non gli era stato notificato. Lo attendeva, trepidante, appunto in carcere. Nel mezzo di questa situazione, di questo stato d’animo, una richiesta di denaro sia pure a fine di prestito, poteva non essere esaudita? Chi vive all’interno di un carcere, chi vive quotidianamente la privazione della libertà più elementare — anche quella di chiedere una penna o un libro — vorrà mai correre il rischio di contrariare il ‘carceriere’, colui che sostanzialmente finisce per diventare non solo l’unico riferimento anche per la più banale richiesta, ma anche colui dal quale dipende il proprio destino quotidiano? Basta ricordare quanto ha detto l’ex detenuto (Paolo, nome di fantasia) la cui intervista è comparsa ieri su queste colonne: «Per non essere trasferito dal carcere di Ravenna ho pagato, 500 euro al mese». Così il ragazzo ha consegnato il denaro. Di lì a pochi giorni è giunto il provvedimento per la semilibertà. Se non avesse pagato e l’agente avesse inoltrato un (falso) rapporto negativo su di lui, il provvedimento sarebbe poi stato revocato. «Questa si chiama concussione ambientale» sottolinea un avvocato che aggiunge: «Non solo per un caso come questo, ma anche per il denaro chiesto ai penalisti. Forse più di uno lo ha fatto per timore di vedersi dirottati i clienti». Dice un altro legale: «Soldi ne ha chiesti anche a me e io non gli ho dato nulla: io non so se i due fatti siano da mettere in relazione, ma di lì a poco qualche mio assistito, detenuto, mi ha detto: ‘Ma lo sai che qua dentro si dice che tu non vali nulla come avvocato e che sarebbe meglio che io nominassi un altro?’»
C’è ancora un aspetto da affrontare in questa inchiesta, ed è quello della sostanza stupefacente che, nei modi più svariati, entra all’interno della casa circondariale. «Gira molto fumo, ma anche polvere bianca» ha raccontato ‘Paolo’. «Io non ho mai fatto uso di droghe e non avevo certo intenzione di cominciare in carcere» ha aggiunto. E ha spiegato: «Uno dei metodi utilizzati per fare entrare la cocaina è quello dello scambio delle scarpe ai colloqui. La polverina viene messa sulla parte interna della suola, che poi viene incollata alla scarpa. Al colloquio fra parenti e detenuti, basta togliersi le scarpe e scambiarsele».
Per non parlare del vecchio mezzo delle bustine cucite nei risvolti o nei rinforzi dei pantaloni messi nel ‘pacco’ del vestiario di ricambio.
Ora nella sala colloqui non ci sono più i vetri divisori: sono stati tolti, nel quadro delle iniziative per rendere più umani gli incontri fra reclusi e familiari. Il rischio dell’introduzione in carcere di droga o altri oggetti esiste da sempre e ora è quindi aumentato: solo i più capillari controlli possono ridurlo pressochè a zero. «Ma la scarsità dell’organico impedisce di organizzare i controlli al meglio dell’efficenza» fanno sapere gli agenti di Polizia penitenziaria i quali spesso hanno trovato piccoli involucri, soprattutto di hashish, ai piedi del muro di cinta del carcere, ovviamente all’interno. Si trattava di involucri lanciati dall’esterno.
Ma droga è stata trovata anche all’interno tanto che alla fine della primavera fu organizzata una perquisizione mirata effettuata da carabinieri e guardia di finanza, con i cani. «Le operazioni erano coordinate dal pm Ceroni» testimonia ‘Paolo’. Quasi mezzo etto di sostanza stupefacente è stata trovata in un’area particolare del carcere, ovvero un’area riservata al personale di sorveglianza e non raggiungibile dai detenuti. A chi era destinata?

Rifondazione Libera ha detto...

Sanità penitenziaria: che fare?

Da Democrazia Oggi

18 Ottobre 2008


Antonello Murgia

I dati più recenti, approssimati per difetto, raccolti dal DAP (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) sulla salute percepita in carcere, mostrano un quadro allarmante: solo il 20% dei detenuti risulta in buona salute (contro il 61% dei cittadini liberi: dato ISTAT 1999-2000), mentre il 75% versa in condizioni mediocri o scadenti ed il 4-5% in condizioni gravi.
Peraltro, era quanto meno improbabile che un servizio sanitario organizzato all’interno del Ministero della Giustizia privilegiasse le logiche di salute su quelle di controllo/ordine pubblico. Perché, se gli operatori sanitari dipendono gerarchicamente dal direttore del carcere ed il servizio sanitario dal DAP, le priorità saranno stabilite da chi, per professione e cultura vede nel detenuto l’individuo condannato per un reato più che un cittadino che esprime bisogni. E sappiamo quanto invece sia importante il contributo dell’utenza nel percorso di qualità dei moderni servizi sanitari. In questo non ha giovato anche il retaggio di secoli del carcere inteso come luogo di espiazione piuttosto che di recupero e riabilitazione. Ciò ha comportato una forbice crescente fra il SSN e le prestazioni sanitarie fornite ai cittadini liberi da un lato e il SSP (Servizio Sanitario Penitenziario) e le relative prestazioni ai detenuti dall’altro.
Poiché il problema era culturale e organizzativo, anche l’immissione di risorse economiche e professionali produceva risultati inferiori all’impegno profuso. Ed il quadro è diventato infine allarmante quando le leggi finanziarie hanno individuato anche nel SSP il luogo nel quale ridurre una spesa pubblica elevata.
Nel frattempo, però, sollecitata dai partiti democratici, dai sindacati, da varie organizzazioni della società civile, aveva cominciato a prendere corpo la riforma del SSP, che venne sancita con il D.Lgs. 230/1999 nel quale la salute dei cittadini reclusi cessava formalmente di essere materia di competenza del Ministero di Grazia e Giustizia e del DAP per passare al SSN e alle sue articolazioni territoriali. In materia di tutela della salute, la riforma del titolo V della Costituzione (L. Cost. n. 3/2001) ha poi devoluto alle Regioni una potestà legislativa concorrente (allo Stato è rimasta la determinazione dei principi fondamentali).
Il precedente Governo Berlusconi mostrò ben poco entusiasmo alla riforma del SSP: per sollecitarne l’impegno, nel 2003 è nato il “Forum nazionale per l’applicazione della Legge 230/1999″. Nel 2005 la Regione Toscana ha rotto gli indugi e, prima in Italia, ha approvato la L. Regionale n. 64, mettendo in mora il governo centrale.
La coalizione di centro-sinistra, culturalmente più vicina alla riforma, su sollecitazione del Forum nazionale per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute, ha assunto impegni in campagna elettorale, poi confermati dai Ministri della Sanità e della Giustizia per l’applicazione della riforma ed il definitivo trasferimento delle funzioni di assistenza sanitaria in carcere dall’amministrazione penitenziaria al SSN. Si è giunti così al DPCM 01.04.2008 con il quale il Governo uscente ha stabilito (v. art. 1) “… le modalità, i criteri e le procedure per il trasferimento al Servizio Sanitario Nazionale delle funzioni sanitarie, delle risorse finanziarie, dei rapporti di lavoro, delle attrezzature, arredi e beni strumentali relativi alla sanità penitenziaria”. Il cambio di Governo non ha favorito la celerità del trasferimento, ma gli intoppi non sembrano imputabili esclusivamente a ciò. Il DPCM prevedeva, tra l’altro, che il mese di settembre fosse l’ultimo nel quale gli stipendi dei dipendenti trasferiti venissero pagati dal DAP, ma non è stato ancora fatto niente perché il SSN possa sostituirsi.
Stante tale quadro sarebbe utile che le associazioni, gli operatori del settore, i sindacati si attivassero per la fondazione, in modo analogo a quanto sta avvenendo in altre Regioni, di un Forum Sardo per il diritto alla salute dei detenuti e delle detenute con l’obiettivo di:
- sostenere l’applicazione della riforma della sanità penitenziaria nella nostra Regione perché il carcere non può godere di una sorta di extraterritorialità rispetto al diritto costituzionale alla tutela della salute;
- informare la popolazione sul significato della riforma;
- contribuire all’individuazione di modelli organizzativi appropriati;
- favorire l’approfondimento in materia di prevenzione, cura e riabilitazione delle/i cittadine/i ristrette/i, così da ridurre il grande divario esistente nella tutela della salute fra esse/i e le/i cittadine/i libere/i;
- favorire il coinvolgimento delle/i cittadine/i recluse/i nella convinzione che la partecipazione dell’utenza è fondamentale nell’individuazione dei bisogni da soddisfare e nella predisposizione di percorsi di salute efficaci;
- far crescere il rispetto della dignità del/la cittadino/a recluso/a nella consapevolezza che solamente da questo rispetto possono scaturire un effettivo reinserimento ed una risposta non aleatoria ai bisogni di sicurezza sociale.

Don Ettore Cannavera, riflessioni da "La Collina"

L'Associazione 5 Novembre, ha intervistato Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità di accoglienza "La Collina", rivolta a giovani-adulti, di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, che vengono affidati dalla Magistratura di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione. Un interessante intervista sui temi della Giustizia, del Carcere, del precariato giovanile e della cultura della Solidarietà e dell'accoglienza.