martedì 16 settembre 2008

Migranti: tubercolosi nel Centro di Accoglienza di Cagliari



Sardegna Oggi, 16 settembre 2008

Il sindacato di Polizia Coisp ha scritto al Questore di Cagliari per denunciare la situazione che gli agenti vivono nel Centro di prima accoglienza di Cagliari dove si sono registrati casi di Tbc.


"Abbiamo provato ad affrontare la situazione in modo realistico - ha sottolineato il Coisp - consapevoli che chiedere la chiusura del Centro, dopo il provvedimento d’autorità del prefetto Morcone, in relazione all’emergenza nazionale, sarebbe stato utopistico. Tuttavia non è possibile rinunciare alla salvaguardia della salute del personale impegnato nel trattamento dei clandestini. Il primissimo intervento è stato indirizzato alla distribuzione di guanti in lattice e mascherine: la risposta dei responsabili locali dell’Amministrazione è stata che non dovevamo creare allarmismo".


"Oggi, con il senno del poi, anche i Dirigenti più scettici, forse, hanno capito l’importanza della prevenzione", ha aggiunto il Sindacato che ha anche proposto la trasformazione del Cpa in Cei ("valida alternativa la struttura della scuola di Polizia Penitenziaria di Monastir") perché la collocazione logistica del Centro di Elmas "è da ritenersi fra le più infelici del panorama nazionale".


L’allarme per poliziotti a rischio malattie infettive viene lanciato dal Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori di polizia). "Si sono riscontrati - segnala il segretario generale del Siulp, Felice Romano - quattro casi di tubercolosi tra gli ospiti del centro di accoglienza di Elmas (Ca). In chiara violazione delle norme sulla sicurezza, centinaia di poliziotti sono stati costretti ad operare a stretto contatto con gli immigrati, in un ambiente fatiscente e privo delle più elementari norme igieniche. Ora tutti i poliziotti in servizio presso quel centro sono da oggi sottoposti a visita medica, per accertare un eventuale contagio".


"Sarebbe ora il caso - prosegue il sindacato - che il ministro Brunetta comprendesse che il lavoro del poliziotto comporta l’esposizione quotidiana anche a rischi di questo genere: ci dica cosa intende fare del suo decreto anti fannulloni se questo viene applicato integralmente agli operatori della polizia di Stato, nel caso in cui alcuni poliziotti risulteranno ammalati di tubercolosi". Il Siulp annuncia quindi una mobilitazione generale finalizzata all’intervento dell’Amministrazione della P.S. sui centri di accoglienza onde valutare se la situazione di Elmas possa ripetersi in altre realtà territoriali.

8 commenti:

Roberto Loddo ha detto...

il valore della "sicurezza" scaccia quello della libertà

di Zygmunt Bauman



La Repubblica, 16 settembre 2008



In un mondo globalizzato allo slogan rivoluzionario "Liberté, Egalité, Fraternité" si è sostituito il motto "Sicurezza, Parità, Rete".

Quando venne proclamato per la prima volta, in Francia, nel pieno dell’eccitazione rivoluzionaria, lo slogan "Liberté, Egalité, Fraternité" era, allo stesso tempo, l’espressione sintetica di una filosofia di vita, una dichiarazione di intenti e un grido di battaglia. La felicità è un diritto umano e il suo perseguimento è un’inclinazione umana naturale e universale - così suonava l’assunto, implicito e evidente, di questa filosofia di vita. Per conseguire la felicità, gli uomini avevano bisogno di essere liberi, uguali e affratellati (tra fratelli, la simpatia, il soccorso e l’aiuto sono diritti di nascita, non un privilegio che deve essere guadagnato ed esibito prima di vederselo riconosciuto).

Come sostenne in maniera memorabile John Locke, anche se come le persone erano state abituate a credere da secoli di appelli improntati al memento mori, gli uomini possono scegliere e percorrere "solo un cammino" verso la felicità eterna (il cammino della pietà e della virtù, che conduce all’eternità del Paradiso), resta valido quanto segue: una sola tra queste è la vera via della salvezza. Ma tra le mille che gli uomini imboccano, qual è quella giusta? Né la cura dello stato, né il diritto di far leggi hanno svelato con maggior certezza al magistrato la via che conduce al cielo di quanto non l’abbia svelato a un privato cittadino la propria ricerca.

Queste assunzioni, riguardanti il legame intrinseco e indissolubile tra la qualità del "commonwealth" e le chance di felicità individuale, hanno perso, o stanno rapidamente perdendo, la loro validità assiomatica, e tale declino avviene tanto nel modo di pensare della gente così come nella loro versione intellettualmente sublimata. Ed è forse per questa ragione che le condizioni implicite della felicità individuale stanno scivolando dalla sfera sovra-individuale della Politica verso il dominio della bio-politica individuale, postulata come terreno di iniziative eminentemente personali, in cui vengono impiegate per lo più, se non esclusivamente, risorse possedute e gestite a livello individuale. Lo spostamento riflette il mutamento delle condizioni di vita, risultante dai processi liquido-moderni di deregulation e privatizzazione, cioè "sussidiarietà", "outsourcing", "sub-contratti" e così via, con cui si rinuncia progressivamente ad elementi che prima facevano parte delle funzioni svolte dal commonwealth. La formula che si sta oggi profilando, in ordine al perseguimento dell’obiettivo (immutato) della felicità, è espressa al meglio dal motto: "Securité, Parité, Reseau" (Sicurezza, Parità, Rete).

Il valore della "sicurezza" sta scacciando quello della libertà. Questo "scambio", caratteristico della nostra civiltà, si manifestò per la prima volta allorché Sigmund Freud, in Il disagio della civiltà, pubblicato nel 1929, mise in luce la tensione e gli scivolamenti che caratterizzano il rapporto tra questi due valori, ugualmente indispensabili e altamente considerati, eppure difficili da riconciliare. In meno di un secolo, il continuo progresso della libertà individuale di espressione e di scelta ha raggiunto un punto in cui il prezzo di tale progresso, cioè la perdita di sicurezza, ha cominciato ad essere giudicato esorbitante - insostenibile e inaccettabile - da un numero crescente di individui emancipati, o costretti ad andare per la propria strada di punto in bianco. I rischi implicati dall’individualizzazione e dalla privatizzazione del perseguimento della felicità, uniti al graduale ma progressivo smantellamento delle reti di sicurezza (pensate, costruite e offerte a livello sociale) e dell’assicurazione contro i rovesci della sorte (stipulata sempre a livello sociale), si sono dimostrati enormi.

L’incertezza generatrice di paure che ne é seguita ha avuto come effetto uno scoraggiamento diffuso. L’idea di una vita riempita in misura leggermente maggiore da certezza e sicurezza, anche se in parte a scapito della libertà personale, ha guadagnato all’improvviso seguito e potere seduttivo (...).

Nell’odierna costellazione delle condizioni (e delle aspettative) di una vita decente e piacevole, la stella della parità brilla sempre più luminosa, mentre quella dell’uguaglianza va oscurandosi. "Parità" non è assolutamente sinonimo di "uguaglianza", o meglio, è un’uguaglianza, abbassata a uguale diritto al riconoscimento - a "diritto di essere" e "diritto di essere lasciati in pace". L’idea di livellare il reddito, il benessere, il comfort le prospettive di vita, e ancor più l’idea di un’equa ripartizione nello svolgersi della vita in comune e nei benefici che la vita in comune ha da offrire, stanno sparendo dall’agenda dei postulati e degli obiettivi realistici della politica. Tutte le varietà della società liquido-moderna sono sempre più compatibili con il permanere di un’ineguaglianza economica e sociale. L’idea di condizioni di vita uniformi e universalmente condivise viene via via sostituita da quella di una diversificazione in linea di principio illimitata - fino a coincidere con il diritto di essere e rimanere differenti senza che per questo siano negati dignità e rispetto.

Mentre le disparità verticali nell’accesso a valori approvati e ricercati da tutti tendono ad aumentare ad una velocità crescente, incontrando scarsa resistenza e causando al massimo azioni rimediali di poco conto, sporadiche e di portata molto ristretta, le differenze orizzontali, di converso, si moltiplicano, accompagnate da peana, celebrate e sistematicamente promosse dai poteri politici e commerciali così come da quelli ideologici (ideational). Le guerre per il riconoscimento prendono il posto occupato un tempo dalle rivoluzioni; il campo di battaglia non è più la forma del mondo che verrà, ma il posto, tollerabile e tollerato, in questo mondo; in questione non sono più le regole del gioco, ma solamente l’ammissione al tavolo. Questo è ciò che si intende, alla fin fine, con "parità", l’ultima incarnazione dell’idea di equità: riconoscimento del diritto di partecipare al gioco, rigettando un verdetto di esclusione o allontanando la possibilità che un verdetto del genere possa mai essere formulato.

Infine, la rete. Se "fratellanza" implicava una struttura acquisita, che predeterminava e predefiniva le regole che fissano condotta, atteggiamenti e principi di interazione, la "rete" non ha dietro si sé alcuna storia: la rete è tessuta nel corso dell’azione, e tenuta viva (o meglio, continuamente, ripetutamente ri-creata/resuscitata) soltanto grazie a una successione di atti comunicativi. A differenza del "gruppo" e di qualsiasi altro tipo di "totalità sociale", la rete è ascritta su base individuale ed è individualmente orientata - sua parte originaria, permanente e insostituibile è l’individuo, il nodo volta per volta considerato. Si assume che ogni singolo si porti dietro, assieme al proprio corpo, il suo o la sua propria specifica rete, un po’ come una chiocciola porta la sua casa. Una persona A e una persona B possono appartenere entrambe alla rete di C, ma A può non appartenere a quella di B e viceversa - una circostanza che non poteva verificarsi nel caso di totalità come nazioni, chiese o quartieri. La caratteristica più rilevante delle reti, peraltro, è la non comune flessibilità della loro portata e la straordinaria facilità con cui ne può essere modificata la composizione: le unità individuali vengono aggiunte o tolte con uno sforzo non maggiore a quello con cui si mette o si cancella un numero dalla rubrica del cellulare. I legami eminentemente scioglibili che uniscono le diverse unità delle reti sono tanto fluidi quanto lo è l’identità del nodo della rete, il suo solo creatore, proprietario e gestore. Grazie alle reti, l’"appartenenza" passa da antecedente a conseguenza dell’identità, diventa l’estensione di un’identità eminentemente mutevole, qualcosa che segue immediatamente, e opponendo una resistenza minima, alle successive rinegoziazioni e ridefinizioni identitarie. Con ciò, le relazioni poste in essere e sostenute dai collegamenti in forma di rete si avvicinano all’ideale della "relazione pura": legami unifattoriali facilmente gestibili, senza durata determinata, senza clausole e sgravati da vincoli a lungo termine. In netta opposizione ai "gruppi di appartenenza", ascritti o scelti, le reti offrono al loro proprietario/gestore il sentimento rassicurante (anche se alla fin fine controfattuale) di controllo totale e indiscusso sulle proprie lealtà e sui propri obblighi.

Roberto Loddo ha detto...

terrorismo, violenza politica e l’omicidio Calabresi

di Adriano Sofri



Corriere della Sera, 16 settembre 2008



Caro Direttore, non lamenterò di non essere capito: pensiamo tutti di non essere capiti. Citerò invece un piccolo fatto. L’indulto, di cui fui ostinato e appassionato fautore, si realizzò all’improvviso in una maniera sorprendente, includendo l’omicidio ed escludendo reati assai meno gravi, in nome della "percezione " della gente, la quale a sua volta sembrò largamente confermare quella singolare classifica dell’allarme scandalizzandosi molto più di spacci e scippi che di omicidi. Senza averlo chiesto né desiderato, ricevetti anch’io ex officio i tre anni di riduzione della pena previsti dall’indulto. Dal quale erano escluse le condanne per fatti di terrorismo.

Dunque la distinzione è tutt’altro che astratta o pretestuosa, e può produrre effetti incisivi. Io, che non sono mai stato terrorista e sono stato sempre avverso al terrorismo, anche quando ritenevo la violenza necessaria a cambiare il mondo, se oggi volessi difendermi in giudizio da chi mi insulta chiamandomi "ex-terrorista", potrei fare appello all’imputazione che mi venne mossa, e che rinunciò del tutto all’addebito dell’associazione sovversiva o della finalità terroristica, trattando l’omicidio di Luigi Calabresi come un affare di diritto comune.

Però nel libro del Quirinale dedicato alla memoria delle vittime italiane del terrorismo negli anni repubblicani, Luigi Calabresi compare, e anzi la sua figura ha avuto un ruolo primario nella volontà di commemorazione. Da mesi leggo - per la prima volta, del resto - innumerevoli carte relative alla morte di Pinelli e ai processi Lotta Continua - Calabresi: inducono a credere che Calabresi non fosse nella sua stanza al momento della caduta di Pinelli. Punto decisivo, che tuttavia non chiude affatto la questione. Negli elenchi delle vittime del terrorismo non figura Pino Pinelli, magari perché lo si è considerato, secondo la sentenza D’Ambrosio, vittima tutt’al più di un malore attivo. Non c’è un problema?

Le figlie di Pino Pinelli hanno palesemente scelto una discrezione senza riserve. Si può comunque chiedersi se siano mai state invitate a Palazzo Marino, o al Quirinale, o al Palazzo di Vetro. "Terrorista" può essere un generico epiteto, da usare per insultare qualcuno quando si perde la pazienza. Me, per esempio. In senso proprio, vuol dire quella violenza indiscriminata tesa a suscitare il terrore nelle file del preteso nemico e a conquistare col terrore l’adesione della propria pretesa parte. L’omicidio di Calabresi, così come lo disegnano imputazioni e condanne, sarebbe dunque questo, una specie di caricatura del socialismo in un Paese solo nel terrorismo di un assassinio solo?

Evocare una distinzione non ha niente della giustificazione, e tanto meno, nel mio caso, del malanimo verso la famiglia del commissario. Semplicemente, esiste una violenza che non è violenza politica, e una violenza politica che non è terrorismo. Non è una scala di valori, è una differenza obiettiva. C’è la strage di Erba, e quella alla stazione di Bologna. È un sofisma? Al contrario: io, che ripeto di portarmi addosso una condanna ingiusta, voglio comunque obiettare quando l’omicidio di Calabresi viene commemorato alle Nazioni Unite come esemplare del terrorismo internazionale, accanto alla strage dei bambini di Beslan. Sofisma mi sembra quello di chi, come se la sottrazione dell’epiteto di terrorista volesse dire per sé un’indulgenza o addirittura un’assoluzione, dice che io non sono terrorista ma l’omicidio di Calabresi - nella versione che ne hanno dato i tribunali - è terrorista.

Fa scandalo che io dissenta dal fortunato e amaro slogan "non si può essere ex-assassini": certo che si può. Il calendario cristiano ne è un documento sovrabbondante. Ho detto anche che persone che oltrepassano la soglia fra le parole e i fatti non sono necessariamente malvagie, e possono anzi essere "migliori" di altre. Mi lasci evocare, senza stabilire, prego, alcun raffronto, un esempio distante - benché ancora lacerante, come ogni vicenda italiana. Il 15 aprile del 1944 Giovanni Gentile fu ucciso a Firenze da un "gruppo di azione partigiana" guidato da Bruno Fanciullacci. Fanciullacci fu catturato pochi giorni dopo, venne gravemente ferito, liberato e ricatturato, finché, per sottrarsi alle torture della famigerata banda Carità e non tradire i suoi compagni, si gettò, con le mani legate dietro la schiena, da una finestra del terzo piano.

Morì pochi giorni dopo, non aveva ancora venticinque anni. Alla sua memoria venne data la medaglia d’oro della Resistenza. Qualche tempo fa mi colpì una disputa politica fiorentina, poi diventata giudiziaria. Un esponente della destra chiamò "vigliacco assassino" Fanciullacci. (Se non sbaglio, quello stesso esponente dichiarò poi di avere fino ad allora ignorato la fine di Fanciullacci. Il tribunale lo assolse). L’uccisione di Gentile è l’atto più controverso della infinita guerra civile italiana. Io rimpiango che sia avvenuta, e penso con grande rispetto al destino di Bruno Fanciullacci.

Roberto Loddo ha detto...

tutti contro Sofri; la "scomoda solidarietà" di Segio

di Sergio Segio



Lettera alla Redazione, 16 settembre 2008



Tutti contro Sofri. O quasi. Basterebbe questo per esprimere vicinanza all’ex leader di Lotta Continua. Se non altro per sottrarsi alla consueta ressa di chi corre in soccorso del vincitore.

La mia - presumo scomoda - solidarietà oltre che da antica amicizia e stima è motivata anche da una ragione personale. Infatti anch’io, sapete, non sono mai stato un terrorista. Omicida politico e militante della lotta armata sì, ma non terrorista. La definizione che di questa "categoria" fornisce Sofri non mi convince, poiché credo che il carattere di indiscriminatezza che appunto caratterizza il terrorismo comporti il fatto che esso non si rivolga verso "parti nemiche" e non ricerchi consensi: l’incertezza dell’attribuzione, o talvolta, il sapiente mascheramento fanno parte della strategia del terrore, che si indirizza indistintamente verso chiunque. Come appunto anche la strage di piazza Fontana ha dimostrato. Semmai sono le guerriglie o le lotte armate che si rivolgono contro le parti considerate nemiche e operano cercando di allargare il consenso in quelle reputate amiche. Normalmente, le lotte armate rivendicano le proprie azioni, mentre il terrorismo mistifica e nasconde le paternità degli attacchi; i quali sono quasi sempre stragi non singoli e mirati obiettivi.

Mi ritrovo semmai in una considerazione espressa da Francesco Cossiga riguardo gli "anni di piombo": "Piano con i "terroristi". Rileggendoli ora, quei dati, e considerando che sono state sei o settemila le persone finite in carcere per periodi più o meno lunghi, va ricordato che aveva ragione Moro: ci trovavamo davanti a un grosso scoppio di eversione. Non di terrorismo. Il terrorismo ha una matrice anarchica che punta sul valore dimostrativo di un attentato o di una strage. L’eversione di sinistra non ha mai fatto stragi. Ci trovavamo davanti a una sovversione. A un fenomeno politico. A un capitolo della storia politica del Paese" (articolo a firma Gian Antonio Stella, in "Sette", magazine del "Corriere della Sera", 7 febbraio 2002).

Ma evidentemente non si tratta di questione terminologica o scolastica. Davanti e sopra le definizioni stanno i morti, le famiglie, le sofferenze e i lutti.

La puntigliosità nominalistica - però fondata nella qualificazione giuridica del reato contestato e nella sentenza che lo ha condannato - su cui Sofri insiste ancora oggi sul "Corriere della Sera" non deve impedire di cogliere un punto centrale da lui sollevato: riconoscere anche Pinelli (aggiungerei: i tanti Pinelli, gli Zibecchi, i Roberto Franceschi, i Franco Serantini…) come vittima. Scrive Sofri: "Penso a Pinelli come a una vittima del terrorismo di stato, l’ultima vittima della strage di Piazza Fontana". Io direi invece che come Pinelli è stata la diciassettesima vittima della strage, Calabresi ne è stata la diciottesima. E poi ne sono venute altre, inanellate in una tragica sequenza di morti solo in apparenza scollegate e distinte: Giangiacomo Feltrinelli, Sergio Ramelli, Enrico Pedenovi, Giuseppe Ciotta, Emilio Alessandrini. E tanti, troppi, ancora.

Del libro degli anni Settanta in tutta evidenza non è ancora stata voltata l’ultima pagina. Anche perché i diversi capitoli mostrano parecchi buchi. Vi sono pagine strappate che vanno ricomposte, pagine nascoste che vanno scoperte e inserite per poter leggere il libro per intero, e poterlo alfine archiviare, assieme a quel Novecento di cui è stato parte.

Quella storia va letta sino all’ultima riga. Ma partendo dall’inizio. Ad esempio, quando il direttore di Repubblica, intervenendo a una trasmissione televisiva per presentare il libro di Mario Calabresi, dice testualmente: "La questione del terrorismo in Italia è chiarissima: è qualcosa che è impazzito nella metà del campo della sinistra, nella metà del campo del comunismo, ibridato con alcune istanze radicali", dice una verità parziale e anzi fuorviante.

La storia, infatti, ha un carattere processuale dal quale non si può seriamente prescindere. Non si può fare a meno, dunque, di ricordare - e di informare chi non c’era - come è cominciata l’intera vicenda della degenerazione armata e della strategia della tensione. Invece, negli ultimi anni, è stato espunto dal dibattito pubblico ogni riferimento su cosa è venuto prima di quell’impazzimento di cui ha parlato Ezio Mauro. Vale a dire le stragi, le compromissioni con esse di pezzi dello stato, le degenerazioni istituzionali, i tentativi di golpe.

Uno dei fondamentali punti di snodo, se non il punto di inizio, è la strage di piazza Fontana. E la morte di Pino Pinelli. In un quadro che viene costantemente rimosso, ma che è decisivo per capire: vale a dire il contesto internazionale della Guerra fredda.

Sofri vuole allontanare da sé, e da Lotta Continua intera, l’accusa di terrorismo, perché tra questo e la violenza "un confine c’era". Penso sia una innegabile verità. Anzi, penso che si via stato un confine tra violenza organizzata (quella teorizzata e praticata anche da Lotta Continua) e lotta armata. Tanto è vero che chi in Lotta Continua a un certo punto decise che bisognava passare alla lotta armata, dovette uscire da quell’organizzazione. Io, tra i tanti altri. Decisione sciagurata e sicuramente evitabile. Ma forse più facilmente evitabile se l’uso della violenza politica non fosse stato così a lungo (e ben prima ancora della nascita di LC e della sinistra extraparlamentare) contemplato ed enfatizzato, moralmente e culturalmente accettato, promosso e organizzato.

Qui mi pare abbia ragione Erri De Luca quando, all’intervistatore che gli domanda se anch’egli avrebbe potuto scegliere la lotta armata, risponde: "Avrei potuto, sì, ma guarda che noi non facevamo una lotta disarmata. La lotta armata, rispetto a quello che facevamo noi, era diversa solo perché gli altri facevano di quella attività l’unica forma di espressione politica. Per noi quello era semplicemente un accessorio maledetto della grande lotta politica pubblica". Aggiungendo poi a proposito delle armi possedute da LC: ""Che io sappia quelli che le detenevano le hanno passate ai gruppi combattenti. Se chiudi un giornale passi la tipografia a quelli che vogliono farne un altro. Le armi le passi a quelli che vogliono sparare" (Intervista a Erri De Luca di Claudio Sabelli Fioretti, Magazine del "Corriere della Sera", 9 settembre 2004).

È questa la differenza. Per gli uni le armi (e gli omicidi politici) erano strumento programmatico, e via via esclusivo, da rivendicare. Per gli altri strumento occasionale, da sottacere. Una piccola-enorme differenza. Richiamarla, com’è giusto, presupporrebbe riconoscere - e Adriano ora onestamente lo fa - che anche i "terroristi", vale a dire i lottarmatisti, non erano mostri caduti dalla luna, ma erano parte, se non proprio prodotto, della storia della sinistra, e anche di Lotta Continua. Non erano belve sanguinarie ma persone allucinate dall’ideologia e progressivamente disumanizzate dai mezzi usati se non dagli obiettivi prefissati.

A lungo, pressoché tutta la sinistra ha preferito invece negare ogni parentela, rivendicando un solco ampio, un insuperabile fossato tra sé e chi prese le armi. Quel solco vi è stato, ma era assai sottile. In alcuni anni e momenti, sottilissimo, come il ghiaccio sui laghi in primavera. E questo vale per gli anni Cinquanta e Sessanta, non solo per i Settanta.

L’omicidio di Luigi Calabresi, al di là di come volemmo interpretarlo noi (intendo noi che demmo vita a Prima Linea), vale a dire l’atto fondativo, l’innesco di un percorso teso verso la lotta armata e la guerra civile, ebbe invece intenzioni puramente e squisitamente "giustizialiste", di giustizia alternativa tesa a supplire quella inadempiente, complice e compromessa dello stato. Una "giustizia terribile": quella della pena di morte, che oggi reputo di per ciò stesso il contrario, la negazione della giustizia. Sempre e comunque, verso chiunque si rivolga, colpevole o innocente che sia: una consapevolezza che costituisce un vaccino morale e culturale di cui tutti, ma proprio tutti, allora eravamo privi.

E mi pare sia questo, questo ristabilimento di differenze, ciò su cui oggi insiste Sofri. A ragione. Ha ragione. Pure e però penso che l’omicidio del commissario Calabresi abbia costituito un punto di non ritorno, che continua a essere sottovalutato. Non solo perché alla uccisione di un uomo non c’è rimedio, e questo sì crea un solco tremendo. Ma perché ha rappresentato il primo salto dalle parole di morte alle azioni di morte, dalla morte come incidente, per quanto prevedibile, alla morte come paziente costruzione. Come intenzionalità. Lì si è mandato in frantumi un tabù non più ricomposto e forse non più ricomponibile.

Su questo, su una riflessione vera e approfondita sui nessi tra violenza, opzione rivoluzionaria, lotta armata, terrorismo e potere bisognerebbe forse soffermarsi. Dopo il 1989, la sinistra (tutta, non solo quella estrema) ha archiviato il Novecento, limitandosi a chiudere in un cassetto teorizzazioni e pratiche che pure le sono appartenute. Ma ciò che viene rimosso anziché essere elaborato è destinato a ripresentarsi, ad alimentare non detti, omertà, falsificazioni.

È un triste segno dei tempi che a ricordare la vicenda di un anarchico trattenuto illegalmente in questura e morto precipitando da una finestra e a denunciare un doppiopesismo nella memoria e nel cordoglio pubblico sia lasciata sola la persona che si trova nella posizione più scomoda per farlo, Adriano Sofri.

Certo, le memorie sono lacerate, le ferite sono ancora aperte, il sangue irrisarcibile, i torti e le ragioni acclarati dalla Storia. Eppure, lo sforzo per riconoscere anche il dolore degli altri è la porta stretta attraverso cui una società deve passare per superare lacerazioni e ferite. Se non sa farlo, se non vuole farlo - e anche il dibattito di questi giorni ne è segnale eloquente - quel passato è destinato a riviverlo continuamente, senza averne assimilato alcun insegnamento. La pietas per le vittime, per tutte le vittime, si fonda sul ricordo e sul rispetto non sull’incapacità di elaborazione.

Ogni popolo guardi al dolore dell’altro e non solo al proprio e sarà pace, ha detto il cardinal Martini a proposito del Medio Oriente. Fatti i necessari ed evidenti distinguo, credo che questo valga anche per le lacerazioni degli anni Settanta: solo questa considerazione e questo sentimento possono fondare la riconciliazione e un reale superamento.

Roberto Loddo ha detto...

Viterbo: detenuto si è ucciso, era ricoverato in "Casa di Cura"



Comunicato stampa, 16 settembre 2008



Il Garante dei diritti dei detenuti Angiolo Marroni: è evidente che la patologia psichiatrica non può essere gestita con il carcere e l’uso massiccio di farmaci.

"La morte del detenuto 42enne in una casa di cura di Viterbo ripropone, con drammatica urgenza, il problema dei detenuti con problemi psichici in carcere". Lo ha detto il Garante dei Diritti dei Detenuti del Lazio Angiolo Marroni commentando la notizia del suicidio di un detenuto agli arresti domiciliari nella clinica psichiatrica Villa Rosa di Viterbo.

Nei mesi scorsi due detenuti con problemi psichici erano morti nelle carceri di Frosinone e a Regina Coeli. Lo scorso luglio, inoltre, un agente di polizia penitenziaria di Rebibbia Nuovo Complesso si era ucciso sparandosi un colpo di pistola.

"Purtroppo in carcere e nel mondo che ruota attorno al carcere si continua a morire - ha aggiunto il Garante dei detenuti Angiolo Marroni - Il carcere è una realtà dura che, a volte, fa apparire insuperabili i problemi quotidiani soprattutto per chi ha già problemi psichici con cui convivere. È evidente che la patologia psichiatrica non può essere gestita solo con il carcere o l’uso massiccio di farmaci. Per ogni tipo di malattia è importante intervenire con tempestività garantendo le cure adeguate. In un momento in cui si parla sempre più di reati da punire con il carcere e di certezze delle pene, non vorrei passasse in secondo piano il fatto che chi è in carcere è pur sempre un cittadino di questa società con diritti fondamentali, come quello alla salute, che non possono essere sospesi".



Ufficio del Garante dei detenuti del Lazio

Roberto Loddo ha detto...

Trento: "braccialetti"? forse utili, ma rimangono molti dubbi



Il Trentino, 16 settembre 2008



Trenta detenuti in meno. Il dato è da verificare, ma così, preso con le dovute pinze, significa che il carcere di Trento tornerebbe a un numero di "ospiti" inferiore alla capienza massima fissata in 90 posti. Attualmente, nelle galere di via Pilati vivono in 115, ma quindici italiani potrebbero andarsene con il braccialetto elettronico e una prospettiva di arresti domiciliari e per quindici stranieri le porte si potrebbero aprire con un ordine di espulsione.

Braccialetto ed espulsione sono due delle proposte elencate dal ministro Alfano nel piano che vuol combattere sovraffollamento e condizioni di vita non adeguate nelle prigioni italiane. I detenuti di Trento attendono le decisioni politiche da spettatori interessati. Non solo perché sono in tanti, ma anche perché del vecchio carcere austro-ungarico hanno messo all’indice strutture, condizioni igieniche, assistenza sanitaria e pasti.

A fine agosto, il malcontento è diventato quasi rivolta dopo la morte dietro le sbarre di un ragazzo algerino. Mentre il nuovo penitenziario da 120 milioni cresce a Spini di Gardolo, Alfano può almeno decongestionare le celle? Stefano Dragone non ci crede. Chiede tempo, il procuratore della Repubblica, dice che "non si può dare un giudizio su due piedi sulle proposte del ministro".

Poi comunque osserva "che finirebbe come è finita con l’indulto". Una bolla di sapone: due anni fa, il provvedimento firmato dal ministro Mastella diede subito via libera a una cinquantina di detenuti trentini, il carcere respirò e la sua popolazione schizzata a 170 persone si dimezzò, ma meno di 12 mesi dopo la capienza massima era di nuovo sforata, finito il beneficio per chi vive in cella e per gli agenti della polizia penitenziaria.

"Lo sapevano tutti dal principio e sarebbe temporaneo pure l’effetto Alfano - commenta Dragone - Servivano nuove carceri allora e ne servono oggi". Altro che braccialetti, che "poi sono già stati sperimentati alcuni anni fa - ricorda il procuratore - ed è andata male, perché si usano tecnologie superate. Rivogliamo i braccialetti? Mettiamoci dei quattrini per impostarli con collegamenti satellitari e centrali di controllo efficienti".

Se non li rivogliamo, invece, è quasi meglio, fa capire Dragone: "Per un detenuto che ha una casa, il braccialetto è superfluo. Per uno che non ha una abitazione, il braccialetto mi sembra inutile".

All’idea del ministro lascia aperto uno spiraglio Nicola Stolfi, avvocato e presidente della Camera penale, che il braccialetto non lo scarta a priori ("Purché si dimostri sicuro"), ma nemmeno lo indica come il toccasana: "Premesso che il carcere è un parcheggio inutile e pericoloso, non fa rieducazione e anzi reintroduce nel circolo della violazione della legge, esistono interventi più intelligenti e che già hanno dato risultati.

Vedi la legge Gozzini, che prevede alternative al carcere quali l’affidamento in prova ai servizi sociali. Con la Gozzini, ci sono state percentuali minime di ricaduta nella recidiva, eppure oggi, invece di mantenere quella legge, si cerca di smantellarla". Magari per sostituirla con un braccialetto: "Un detenuto - chiude Stolfi - non è un cagnolino da tenere al guinzaglio. È un uomo in cui riporre fiducia nel quadro di un percorso di recupero".



Sette anni fa un primo esperimento è fallito



Il braccialetto elettronico "sponsorizzato" dal Guardasigilli Angelo Alfano è in realtà una cavigliera. Realizzata in plastica, funziona emettendo segnali telefonici registrati nelle sale operative delle forze dell’ordine. Abbinato agli arresti domiciliari, il braccialetto è l’alternativa al carcere per reclusi con pene non superiori ai 2 anni. In Italia, i detenuti "interessati" sono 4.100.

L’idea comunque non è una novità. Il primo a proporla, nel 2001, fu l’allora ministro dell’Interno Enzo Bianco. Il governo (di centrosinistra) era guidato da Giuliano Amato e la proposta, sperimentata in cinque città, non decollò. Il braccialetto fu applicato in pochi casi (solo dopo aver acquisito il consenso dell’interessato), mentre centinaia di apparecchiature sono rimaste inutilizzate e oggi rischiano di risultare superate sotto il profilo tecnologico.

Un altro dubbio sollevato dai contrari riguarda la dignità del condannato: braccialetto o cavigliera che sia, quell’oggetto "sarebbe un marchio d’infamia", sostiene l’Osapp, sindacato di polizia penitenziaria che si contrappone al sì pronunciato invece al ministro dall’altra sigla sindacale del personale carcerario, il Sappe. Alfano ha inserito il braccialetto in un piano che vuole "rendere più umane le carceri" anche attraverso espulsioni di detenuti stranieri e potenziamento delle attività lavorative. Primo obiettivo: ridurre i detenuti, che oggi in Italia sono oltre 55 mila rispetto a una capienza massima delle carceri di 43 mila posti.

Roberto Loddo ha detto...

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Anonimo ha detto...

Il diritto di voto agli immigrati crea sicurezza

a cura della
Redazione di Ristretti Orizzonti



Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 15 settembre 2008



Di questi tempi parlare di voto agli immigrati può sembrare fuori dalla realtà, e farlo dal carcere ancora di più. Però c’è un aspetto di questo problema che è utile venga ricordato proprio da chi ha commesso un reato, e sta scontando una pena: è il fatto che una persona, che si senta accolta e riconosciuta come cittadino di questo Paese a tutti gli effetti, forse ha meno voglia di violarne le leggi. "Un voto che crea sicurezza" potrebbe essere il senso delle testimonianze dal carcere che seguono.



Voto ai lavoratori per conquistare anche il loro cuore, oltre che il profitto del loro lavoro

Se i politici dicono che il tema del voto degli immigrati richiede attenzione e competenza, allora mi domando perché lo scartano rapidamente e passano a discutere d’altro. Se è una cosa importante si deve parlarne con la gente e non rinviare sempre, e bisogna anche avere la consapevolezza che l’Italia si trova di fronte a un problema che prima o poi devono affrontare tutti i Paesi europei.

Qui dentro siamo costretti a vivere tutti insieme, però per noi stranieri la galera è ancora più dura, ed è sempre più difficile avere dei sentimenti di affetto per questo Paese. I nostri compagni di detenzione italiani fanno colloqui con i loro famigliari, mentre molti di noi stranieri hanno i famigliari che non riescono a ottenere il permesso per venire in Italia, e allora possono solo pensare con nostalgia ai luoghi della loro infanzia, Tirana, Bucarest, Tunisi. Ma, da quando c’è in vigore la legge che obbliga gli stranieri a ritornare nel proprio Paese quando finiscono la pena, è certo impossibile fare progetti di vita qui, e però è difficile anche immaginarsi una vita in Paesi che da anni abbiamo lasciato.

Credo che per gli immigrati regolari sia un po’ lo stesso. Per delle persone in regola che lavorano e partecipano alla vita sociale di questo Paese nello stesso modo degli italiani migliori, è pesante vedersi negare dei diritti perché non sono cittadini italiani. Se questo produce rabbia in noi che siamo rimasti fuori dalle regole di questa società, immaginarsi il senso di frustrazione che provano quelli che si comportano in modo civile, ma che poi sentono dire che il diritto di voto spetta solo agli italiani.

A noi qui dentro parlano di rieducazione e legalità, agli stranieri fuori parlano di integrazione e rispetto delle regole, poi però spesso le vostre Istituzioni si rifiutano di dare un po’ di fiducia almeno a quelli fuori, e li lasciano ai margini della società, facendoli sentire sempre diversi. Ma se si creano divisioni già in partenza, come si potrà promuovere la cultura e i valori del Paese ospitante nella persona da integrare? Mi sembra che questo Paese voglia assorbire soltanto le energie lavorative e intellettuali degli stranieri, facendo un grosso sbaglio, quello di non preoccuparsi di "impadronirsi" anche dei cuori degli immigrati. In questo modo obbligano tutti a sentirsi in una situazione di passaggio. Così succede che anche gli immigrati liberi, come noi detenuti, convivono con la precarietà della loro condizione, e con il rischio di essere tutti soggetti ad espulsione, in qualsiasi momento.



Milan Grgic



I nostri figli non daranno il voto a chi oggi lo ha negato ai loro genitori



Il sabato è un giorno speciale per me, detenuto da quattro anni: da un lato perché ho i miei dieci minuti di telefonata con mia madre e mio padre, dall’altro perché viene a trovarmi mia sorella con il marito e i miei due bellissimi nipoti. Arrivano sorridenti, dopo un lungo abbraccio ci sediamo e cominciamo a parlare, e qualche volta io gli spiego quanto vorrei stare fuori con loro. Mi sento in dovere di fare di tutto per fargli capire che qui dentro non ci devono mai finire, e questo mi dà la forza di andare avanti.

Oggi ci siamo ritrovati a parlare della questione di far votare gli immigrati, ultimamente riapparsa nel dibattito politico. Mentre discutiamo, guardando i miei nipoti di 8 e 12 anni, nati e cresciuti in Italia, penso: ma questi non saranno forse gli italiani di domani? Allora, perché i loro genitori che vivono e risiedono regolarmente da diciotto anni in Italia, rispettosi delle leggi del Paese che li ospita, non possono votare?

Io trovo incomprensibile la giustificazione che la questione "non è nel programma elettorale". Quando sono venuto via dall’Albania, abituato alla dittatura del proletariato, mi hanno spiegato che un sistema democratico come quello italiano, diversamente da un sistema totalitario, è soggetto a continui cambiamenti, sviluppi e trasformazioni. Però nessuno mi aveva detto che i governi, qualsiasi cosa succeda, si attengono solo ai programmi elettorali, come se fossero robot programmati per un compito preciso senza curarsi di quello che succede intorno.

I politici dicono che gli immigrati devono sapere che qui ci sono diritti e doveri, e io penso che se esistono stranieri che adempiono ai loro doveri, allora quello del voto è un diritto che deve essere riconosciuto al più presto. Sono pienamente d’accordo che chi sbaglia deve pagare, e accetto che chi come me si trova in carcere non possa votare, ma credo che quell’esercito di stranieri che ogni giorno contribuisce, lavorando e pagando le tasse, allo sviluppo di questo Paese, abbia il diritto di esprimere attraverso il voto le scelte politiche e amministrative che meglio rispecchiano i suoi interessi. Credo che concedendo il voto non si faccia altro che far sentire gli immigrati un po’ più uguali a quegli italiani con i quali lavorano fianco a fianco ogni giorno. I nostri figli, che sono nati e cresciuti qui, domani saranno cittadini italiani e certo non staranno zitti, ma rivendicheranno con forza i loro diritti, e non daranno i loro voti a chi oggi ha negato il voto ai loro genitori, e non gli ha permesso di scegliere il loro futuro. Sicuramente sceglieranno chi prometterà anche agli immigrati un futuro fatto di giustizia sociale e rispetto delle diversità culturali, religiose, politiche.

Nel frattempo l’orario del colloquio è finito e sento i mie nipoti che mi salutano, in italiano naturalmente: è il loro modo per confermare il fatto che saranno gli italiani di domani?



Gentian Germani



Il voto responsabilizzerà gli immigrati e porterà così maggiore sicurezza



Nel carcere di Padova, un modo che la direzione utilizza per stimolare le persone che fanno fatica a osservare le regole dell’Istituto è quello di cercare di dar loro un lavoro da fare. E spesso vediamo che in poco tempo anche una persona irrequieta, che in cella non faceva altro che litigare e urlare, si trasforma in un lavoratore responsabile.

Lavorare in lavanderia significa dover lavare e stirare le lenzuola di settecento detenuti, lavorare in cucina vuol dire avere responsabilità ancora più grandi. Insomma dare un compito ben preciso ai detenuti, ma soprattutto dare delle responsabilità fa sì che anche le persone più cattive e più violente della società per lo più si sentano in dovere di agire come agisce nel suo posto di lavoro ogni normale operaio: per comportarci come le persone normali bisogna che cominciamo a sentici un po’ normali anche noi detenuti.

Oggi ci sono in Italia milioni di lavoratori immigrati che vorrebbero aggiungere anche il loro voto a quello degli italiani. Riconoscere questo diritto secondo me è un atto dovuto perché ci sono anche loro a contribuire agli stipendi dei politici che governano questo paese, così come contribuiscono alle spese delle scuole dove mandano i figli gli italiani, e degli ospedali dove si curano gli italiani, mentre molti lavoratori immigrati mandano i figli e i genitori in scuole e in ospedali fatiscenti nei propri Paesi d’origine. Però, puntualmente si tira fuori il discorso della sicurezza dei cittadini, che si sentono minacciati dagli stranieri che delinquono. Se questo è vero allora credo che il voto potrebbe aiutare a risolvere il problema. Anche se sostenessimo che tutti gli stranieri, quando vengono in Italia, non si preoccupano di comportarsi in modo responsabile, la loro responsabilizzazione sarebbe l’unica soluzione. E visto che ai politici di oggi piace risolvere le questioni con la galera, dovrebbero trarre anche qualche lezione dai metodi di rieducazione che il carcere di Padova propone.

Se l’immigrato straniero è chiamato a votare, significa che pure i partiti politici saranno chiamati a promettere agli immigrati dei miglioramenti nella loro condizione di vita. Questo dialogo aprirebbe una dimensiona nuova all’interno della quale gli immigrati si ritroverebbero investiti delle responsabilità che hanno gli italiani, e allora si comporterebbero come loro, o magari anche meglio di alcuni di loro. Ecco che, se volete degli stranieri che rispettano le leggi, allora quello della responsabilizzazione attraverso il voto sarebbe un importante passo in avanti: per comportarsi come gli italiani onesti, bisogna che comincino a sentirsi un po’ italiani anche gli immigrati.



Elton Kalica

Anonimo ha detto...

Un carcere "sotto assedio"

a cura della Redazione di Ristretti Orizzonti



Mattino di Padova, rubrica "Lettere dal carcere", 1 settembre 2008



Nei periodi storici in cui monta la voglia di pene dure e di carcere, e ci si rallegra per ogni legge che aumenta gli anni di galera per qualche reato, bisognerebbe per lo meno domandarsi di che carcere parliamo. Non ci stancheremo mai, allora, di ribadire che un carcere con la gente che aspetta il fine pena e basta, è inutile, anzi è pericoloso perché sforna persone incattivite e sole. La Casa di reclusione di Padova è un carcere umano, con parecchie possibilità di studio, di lavoro e altre attività, ma anche a Padova il clima sta cambiando, e si comincia a respirare aria di tensione e assenza di speranza per il futuro: siamo sicuri che è questo il carcere che può far vivere più tranquilli i cittadini onesti?



Tutti i giorni vedo peggiorare il clima nella mia sezione



Sono circa quattro anni che mi trovo nella Casa di reclusione di Padova. Già prima del trasferimento mi dicevano di reputarmi fortunato perché il carcere di Padova offriva parecchie possibilità di reinserimento e percorsi lavorativi. Quando sono arrivato qui ho trovato molti detenuti, italiani e stranieri, che mi hanno raccontato come funzionano le cose qui dentro. La maggior parte di loro andava in permesso premio, altri erano in attesa di una misura alternativa al carcere e il resto sperava di poter accedere prima o poi a qualche beneficio. Quindi mi ricordo che tutti mi hanno detto che in questo posto si dovevano osservare le regole e partecipare alle attività lavorative o di studio, perché solo così avrei potuto anch’io vivere la carcerazione in modo tranquillo e umano. La cosa mi aveva rasserenato molto, poiché ero venuto qui per studiare e per farlo avevo bisogno di assoluta calma.

Dalla mia lunga esperienza di carcere so che, per chi è privato della libertà, non è facile adeguarsi alla situazione e rispettare il regolamento. Nel Carcere circondariale di Novara, dove avevo atteso il processo, pochi pensavano a comportarsi bene, anzi, anche quelle persone che non avevano mai litigato prima di finire in carcere, imparavano subito a mostrarsi forti per non diventare vittime di sopraffazioni. Altro che rieducazione! Invece qui a Padova, quando succedeva che qualcuno si arrabbiava per qualsiasi motivo, i compagni stessi andavano a parlargli e a calmarlo facendogli capire che, per il bene di tutti, doveva imparare a controllarsi.

Ora invece molte cose stanno cambiando, e tutti i giorni vedo peggiorare la mia sezione. Nell’ultimo anno molti detenuti hanno finito la pena e sono usciti, e adesso ad andare in permesso sono solo pochi, mentre la maggior parte non solo non ci va, ma non sa nemmeno se può sperarci. La cosa più grave è che quando uno dei nuovi arrivati fa casino, non trova nessuno che gli dica che non conviene, e quindi non si pone alcun freno, tanto che una parola detta male può trasformarsi in motivo di litigio, sia tra detenuti che con gli agenti.

Io non so dire cosa sia successo negli ultimi mesi, se non che sta cambiando il clima generale nel Paese, ma so che la sezione sta diventando invivibile perché ogni sera c’è qualcuno che urla, protesta, si taglia o litiga con il compagno di cella. Io cerco di tapparmi le orecchie e studiare, ma mi accorgo che sono sempre in meno a credere che comportarsi bene paga, allora cosa succederà quando qui rimarranno solo detenuti senza buone motivazioni per avere un comportamento corretto?



Milan Grgiç



Oggi si respira un clima di violenza contagiosa



Essendo questa la mia prima esperienza di detenzione, quando entrai in carcere undici anni fa, credevo che il braccio di Alta Sicurezza in cui fui messo rappresentasse un po’ tutte le carceri italiane. I miei compagni di detenzione per la maggior parte erano imputati o condannati per associazione mafiosa, traffico internazionale di stupefacenti e sequestro di persona, tutti reati esclusi da qualsiasi beneficio di legge. Nei successivi cinque anni in cui rimasi intrappolato in quel braccio isolato, la mia rieducazione doveva realizzarsi in un ambiente dove le uniche persone che vedevo erano gli altri quarantanove detenuti e gli agenti, il che mi portò a credere che fino al mio fine pena non ci sarebbe stato nient’altro che una quotidiana lotta per la sopravvivenza in un luogo di miseria, di dolore e di abbrutimento.

Poi, a un certo punto della mia detenzione, la direzione del carcere mi trasferì in una sezione cosiddetta comune. Anche lì ho trovato una cella uguale a quella precedente, ma per lo meno i detenuti erano diversi. La loro visione del carcere cambiava totalmente perché i loro progetti di vita erano proiettati fuori dal carcere e mi sono accorto da subito che parlavano una lingua arricchita da vocaboli per me nuovi, come "permesso premio", "semilibertà e lavoro esterno", ed erano tutti impegnati a trovare un’opportunità fuori dal carcere per andare a lavorare durante il giorno. Così ho scoperto un carcere più umano, che offriva delle possibilità a chi era disposto a coglierle. Rimanere indifferente era impossibile, così ho cercato di impegnarmi a tal punto che mi sono guadagnato anche una laurea in Scienze Politiche e sto facendo un Master di secondo livello in Diritti Umani.

È triste però pensare che non è più così. Se fossi uscito oggi dal reparto di Alta Sicurezza, non avrei trovato una situazione tanto diversa da quella che lasciavo. Con le modifiche di legge avvenute negli ultimi anni, anche nelle sezioni comuni sono sempre di più le persone che non possono sperare in una misura alternativa, e questa mancanza di prospettive si può vedere nella frustrazione dei detenuti, che invece di darsi da fare per cercare un lavoro fuori pensano a litigare e a far casino. Il carcere dovrebbe fare in modo che le persone imparino ad osservare la legge e a controllare i propri istinti, ma io vedo intorno a me sempre più persone schiacciate da un sistema puramente punitivo, e questo sicuramente non aiuta la nostra rieducazione.

Oggi il clima che si respira è quello di una violenza fuori controllo, e le grida che quotidianamente echeggiano per i corridoi denunciano malcontento, frustrazione e disagio. La paura è che questo clima finisca per produrre un vortice di violenza in grado di trascinarsi dietro tutti, detenuti e agenti.



Elton Kalica



Chi vuole cancellare la speranza dal carcere?



Dopo aver passato i primi due anni di carcerazione a Rovigo, nel 1997 sono stato trasferito nella Casa di Reclusione di Padova. Appena messo piede in cella ho sentito urla e insulti. Si trattava di due ragazzi che se le davano di santa ragione, tanto che uno dei due è finito all’ospedale. I miei compagni mi spiegarono che i due litigavano per il posto in doccia e che episodi simili si ripetevano spesso. Io, che arrivavo da un piccolo Istituto in cui fatti di quel genere non ne avevo mai visti, non potevo credere a quelle parole e pensavo si trattasse delle solite esagerazioni. Invece, alcuni giorni più tardi, un Agente di Polizia penitenziaria fu aggredito da tre detenuti. Nella stessa settimana scoppiò una megarissa tra detenuti nell’area dei passeggi. Il rapporto tra detenuti e agenti nella maggior parte dei casi era basato sulla mancanza di rispetto, e ogni pretesto era buono per far sì che anche una piccola questione finisse in violenza, verbale, ma spesso anche fisica.

Quello che accomunava gran parte della popolazione detenuta era l’assenza totale di speranza. L’unica cosa certa era la data del fine pena, che al massimo poteva essere un po’ più ravvicinato con l’applicazione della Liberazione anticipata, 45 giorni di sconto di pena ogni sei mesi di carcerazione, che per essere concessi richiedevano un comportamento ineccepibile.

Dalla fine del 1997 però le cose hanno iniziato a cambiare. Prima di tutto la direzione dell’Istituto ha dato modo ai volontari di avviare diverse attività culturali e ricreative. Questo ha fatto sì che noi detenuti potessimo entrare in contatto con l’esterno, e confrontarci ogni giorno con persone "normali". Più o meno nello stesso periodo, l’Ufficio di Sorveglianza di Padova ha iniziato a concedere di più i permessi premio. Questo, oltre a dar modo alle persone che usufruivano di questo beneficio di iniziare davvero un graduale percorso di reinserimento, ha creato una sorta di aspettativa per tutte le altre persone che in permesso non andavano ancora. Vedere gente nelle tue stesse condizioni, che inizia a uscire dal carcere e ha la possibilità di ricrearsi una parvenza di vita normale… beh, questa dimostrazione di fiducia da parte delle Istituzioni ha fatto sì che nel giro di poco tempo questo Istituto diventasse un carcere vivibile, fatto anche di speranza.

Oggi però le cose stanno cambiando e si ha l’impressione che quelle speranze stiano pian piano scomparendo. Le misure alternative vengono applicate molto meno, e sembra che pure i permessi premio siano concessi con il contagocce. Così, se fino ad un paio d’anni fa succedeva spesso che a sedar litigi e risse fossero gli stessi detenuti, per evitare casini a se stessi e agli altri, oggi si rischia che quelle stesse persone quando vedono qualcosa che non va si limitino a far finta di niente e si girino dall’altra parte.

Don Ettore Cannavera, riflessioni da "La Collina"

L'Associazione 5 Novembre, ha intervistato Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità di accoglienza "La Collina", rivolta a giovani-adulti, di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, che vengono affidati dalla Magistratura di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione. Un interessante intervista sui temi della Giustizia, del Carcere, del precariato giovanile e della cultura della Solidarietà e dell'accoglienza.