Dire, 28 marzo 2008
dalla Redazione del Centro Studi di Ristretti Orizzonti www.ristretti.it
"Dopo estenuanti battaglie e denunce contro il degrado in cui riversavano i malati ricoverati nell’Ospedale psichiatrico giudiziario (Opg) di Napoli, stipati a decine nelle celle del monastero francescano di Sant’Eframo del XVI secolo, arriva la beffa dal ministero della giustizia: 3 milioni di euro per ristrutturare l’Opg, mantenendo quindi la destinazione d’uso per un monastero che dovrebbe avere tutt’altra vocazione, e deportazione di massa verso il carcere di Secondigliano per i pazienti attualmente ricoverati".
Lo denuncia Francesco Caruso, che ha deciso perciò di estremizzare la sua protesta: "Mi ritengo moralmente e politicamente responsabile della detenzione illegale degli 80 malati nel carcere di Secondigliano e per questo ho varcato stamane i cancelli del carcere di Secondigliano, nel quale resterò auto-recluso".
I malati dell’Opg, spiega Caruso, "sono stati deportati diversi giorni fa, presi dai letti e caricati sui pullman, e finiti dentro un carcere, malgrado per legge dovrebbero essere assistiti in strutture di cura e riabilitazione, non certo in uno degli istituti penitenziari più grandi della Campania". Inoltre, l’approvazione in conferenza Stato-Regioni dello schema di Dpcm per il trasferimento al Ssn della sanità penitenziaria non prevede la chiusura dell’Opg di Napoli, "come inizialmente previsto in sede di commissione interministeriale giustizia-salute".
Mentre "si delinea un processo di regionalizzazione degli Opg che, lasciando in piedi i 6 ospedali esistenti, legittima ancora una carcerizzazione del disagio mentale del tutto irrazionale e anche illegale". Caruso annuncia che a Secondigliano resterà "fino a quando non avrò un minimo di garanzie sul futuro di questi 80 poveri cristi, malati, senza una famiglia, dimenticati da tutti e incarcerati in questo luogo di sofferenza".
5 commenti:
Giustizia: Ferrara (Dap); 60.000 detenuti entro fine anno…
Ansa, 28 marzo 2008
"L’effetto indulto si avvia ad essere oramai esaurito". È quanto ha affermato Ettore Ferrara, capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ospite a Salerno di un convegno sul diritto Penitenziario Italiano, alla luce delle nuove prospettive europee. Ecco perché, dice Ferrara, bisogna fare in fretta per trovare soluzioni.
"Aver avuto questi due anni di tregua - ha detto Ferrara - é stato un effetto positivo per l’amministrazione penitenziaria perché ha consentito anche al personale di tirare un po’ il fiato e di riorganizzare i propri servizi all’interno, preparandosi ad una nuova emergenza che ormai è più meno alle porte". Il sovraffollamento resta l’emergenza principale del sistema carcerario italiano. "Da questo problema - ha detto Ferrara - derivano gli altri. Dal sovraffollamento deriva la difficoltà di offrire occasioni di lavoro e di formazione ai detenuti, una sanità maggiormente adeguata, l’offerta formativa e d’istruzione.
Quando si è costretti a combattere con numeri estremamente elevati, le risorse disponibili si frantumano fra le molteplici esigenze". Gli istituti penitenziari italiani oggi accolgono più di 51mila detenuti, a fronte di una capienza regolamentare per circa 43mila unità. Quella tollerabile invece e di circa 63mila presenze. Il trend di crescita si aggira intorno alle 1.000 unità mensili. "Anche prima di un anno - ha detto il responsabile del Dap - raggiungeremo la capienza tollerabile".
Giustizia: Cassazione; demenza non compatibile col carcere
Adnkronos, 28 marzo 2008
La demenza senile non sempre è compatibile con il regime penitenziario. Per questo la Cassazione (prima sezione penale, sentenza 12716) ha accolto il ricorso di un indagato di Palermo, Antonino P., che chiedeva di sostituire la custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari presso la propria abitazione o in una clinica neuropsichiatrica a causa della grave patologia di demenza senile da cui era affetto. La Suprema Corte, che ha disposto un nuovo processo per riesaminare il caso di questo detenuto ultra 70enne, scrive che "la demenza necessita di una valutazione particolare onde verificare se il detenuto possa rendersi conto di ciò che accade e della sua condizione di costrizione fisica, anche ai fini di valutarne la pericolosità ai fini della sussistenza delle esigenze cautelari".
Di diverso avviso era stato il Tribunale della libertà di Palermo, che nell’agosto 2007, aveva detto no alla sostituzione della custodia in carcere sulla base del fatto che la patologia poteva essere curata tranquillamente in carcere attraverso "cure farmacologiche e interventi terapeutici all’interno della struttura".
Contro questa decisione la difesa di Antonino P. ha fatto ricorso con successo in Cassazione sostenendo che il carcere non era adatto per il detenuto affetto da demenza, considerando anche che "nessun intervento in concreto era stato predisposto dalle strutture carcerarie per fronteggiare la malattia". La Cassazione ha accolto il ricorso sottolineando ancora che "la possibilità di sottoporlo ad adeguate cure deve essere esaminata anche in concreto, al fine di verificare se le doglianze della difesa sull’inerzia della struttura carceraria siano effettive e quale ne sia il motivo".
Giustizia: torture a Bolzaneto e atteggiamento della politica
di Stefano Rodotà
La Repubblica, 28 marzo 2008
Quando a Bruxelles si scriveva la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, qualcuno osservò che torse non era il caso di fare un riferimento esplicito alla tortura. La prima dichiarazione dei diritti del nuovo millennio, si diceva, doveva guardare al futuro, non attardarsi su anacronismi, certamente nobili, ma che l’Occidente civilizzato si era ormai lasciati alle spalle.
Saggiamente si decise di resistere a questa tentazione, e così il divieto, già con forza ribadito dalla Convenzione dell’Onu del 1984, è stato mantenuto nell’articolo 4 della Carta: "Nessuno può essere sottoposto a tortura, ne a trattamenti inumani o degradanti". Si era alla fine del 2000. Di lì a poco sarebbero venuti Guantanamo e Abu Ghraib, le deportazioni verso compiacenti paesi torturatori, i suggerimenti del professor Dershowitz per una tortura "legalizzata" e il veto del presidente Bush contro una sia pur limitata legge antitortura.
E Bolzaneto, Italia. L’Occidente ha dovuto di nuovo fare i conti con il suo lato più oscuro, rimosso non cancellato. In Italia tutti sapevano, o comunque si era di fronte ad una vicenda per la quale davvero l’ignoranza non scusa. Voci diverse si erano levate, le testimonianze si moltiplicavano, ricordo tra le tante la narrazione di un noto giornalista sportivo che, con una straordinaria freddezza di cronista, riferiva lo stato in cui aveva ritrovato suo figlio.
Mai fatti della Diaz e di Bolzaneto venivano progressivamente respinti sullo sfondo, sopraffatti dalle violenze dei black block e dall’uccisione di Carlo Giuliani. Sembrava quasi che le violenze dei manifestanti e la reazione mortale d’un carabiniere appartenessero ad una normalità perversa, ma governata da una sorta d’invincibile fatalità; e descrivessero comunque qualcosa che può accadere quando pulsioni e paure si fanno troppo forti. Bolzaneto no. Da lì si voleva distogliere lo sguardo.
In quelle stanze s’era manifestata all’estremo la "degradazione dell’individuo" tante volte ritenuta inammissibile dalla Corte costituzionale. Ufficialità, perbenismo, cattiva coscienza rifiutavano di specchiarsi nella negazione dell’umano. Proprio quella negazione è svelata dal tremendo catalogo compilato dai magistrati genovesi, e squadernato davanti all’opinione pubblica dall’iniziativa di questo giornale, dagli implacabili reportage di Giuseppe D’Avanzo. Il silenzio istituzionale è stato rotto, la stampa ha ritrovato la sua funzione di ombudsman diffuso, l’opinione pubblica non può più trincerarsi dietro il "non sapevo".
E tuttavia la reazione già appare attutita, inadeguata. Non è venuta un’attenzione corale del sistema dell’informazione: rispetto della regola gelosa per cui non si riprendono le notizie lanciate dagli altri? Non è venuta un’attenzione vera e intensa dall’intero sistema politico: l’eterno gioco delle convenienze, l’eterna vocazione a minimizzare?
Sta di fatto che, dopo i fuochi dei primi giorni, è tutto un troncare, sopire... le norme non ci sono - si dice. Al massimo ci saranno stati comportamenti "devianti" di qualche sconsiderato. E ci si acquieta. Ma i Paesi davvero civili, le democrazie non ancora perdute dietro riti televisivi insensati reagiscono quando scoprono i loro vuoti, le loro inadeguatezze. S’interrogano sulle ragioni, si mettono in discussione.
Proprio il trovarsi nel cuore d’una campagna elettorale avrebbe dovuto favorire il parlar chiaro, gli impegni netti, la sfida alle proprie pigrizie. Perché non dire subito che la prima proposta di legge (o la seconda o la terza, non importa) sarebbe stata proprio quella volta a colmare la vergognosa lacuna dell’assenza di una norma sulla tortura, che rende inadempiente l’Italia non di fronte a un trattato tra i tanti, ma di fronte all’umanità intera?
Perché, tra le varie iniziative e commissioni annunciate con fragore di trombe, non ne è stata inclusa una incaricata di preparare proprio quel testo? Perché tra gli impegni bipartisan su temi di grande e comune interesse, che dovrebbero vedere dopo le elezioni gli sforzi congiunti di maggioranza e opposizione, non compare la questione della tortura, l’impegno a rendere finalmente operante in Italia la Convenzione dell’Onu dopo un quarto di secolo di disattenzioni e di ritardi?
Non basta tornare sulla proposta di una commissione parlamentare d’inchiesta. Conosciamo, purtroppo, il degrado di questo strumento: non sono più i tempi della Commissione De Martino sul caso Sindona o della Commissione Anselmi sulla P2. E, comunque, si tratta di qualcosa di là da venire, che può assumere il sapore del rinvio. Mentre già oggi, pur con le lacune della legislazione penale, sono possibili impegni istituzionali e politici, vincolanti almeno per il futuro ministro dell’Interno: ricorso a tutti gli strumenti amministrativi disponibili per emarginare chi è stato protagonista di quelle vicende; pubblica condanna, senza troppi distinguo, nel momento stesso dell’assunzione dell’incarico.
Una difesa della polizia in quanto tale può essere intesa come una promessa di copertura, la bana-lizzazione degli atti di violenza assomiglia ad una sorta di annuncio di una loro inevitabile ripetizione. Che cosa dire di fronte all’affermazione di un ex-ministro della Giustizia che, parlando di persone obbligate tra l’altro a stare in piedi per ore, si sente autorizzato a fare battute di pessimo gusto sui metalmeccanici che sono in questa condizione ogni giorno per otto ore?
Ma l’irresponsabilità politica viene da lontano. Ricordo un sottosegretario alla Giustizia, poi transitato nelle schiere garantiste quando le inchieste giudiziarie cominciarono a riguardare il ceto politico, che venne alla Camera dei Deputati a parlare di violenze carcerarie sostenendo che, avvertiti di un trasferimento, alcuni detenuti si erano "sporcati il viso con vernice rossa". Giuliano Amato ha sottolineato che "si è strillato molto più per Guantanamo che non per Genova. Siamo più sensibili ai diritti umani nel mondo che al loro rispetto in casa nostra".
Chiediamoci perché, allora. E la risposta va cercata proprio nell’eclissi sempre più totale della cultura dei diritti, sopraffatta da un’enfasi sproporzionata e strumentale sul bisogno di sicurezza. I diritti disturbano, possono essere sospesi, com’è appunto accaduto a Bolzaneto.
La fabbrica della paura è divenuta parte integrante della fabbrica del consenso. Basta girare per il centro di Roma, dove si circola senza particolari problemi, invaso da manifesti davvero bipartisan che ossessivamente promettono sicurezza, e solo sicurezza. Quale enorme responsabilità assume in questo modo la politica, creando un clima che induce a ritenere giustificata qualsiasi reazione.
E non si insiste, come sarebbe doveroso, sul fatto che la magistratura, una volta di più, è stata l’unica istituzione capace di vera e civile reazione. Si colgono, anzi, atteggiamenti stizziti, dietro i quali non è difficile scorgere il disagio di chi avverte che l’inchiesta di Genova non rivela soltanto comportamenti inqualificabili, ma mette a nudo i limiti della politica. Si celebrano i giudici lontani, com’è giustamente accaduto quando la Corte Suprema degli Stati Uniti condannò le violazioni dei diritti a Guantanamo. Troppi dimenticano di dire che la vergogna di Genova può cominciare ad essere riscattata solo contrapponendo la civiltà giuridica e la lealtà istituzionale dei magistrati genovesi alla violenza contro l’umano e la legalità consumata a Bolzaneto.
Droghe: Sinistra Arcobaleno; depenalizzare sostanze leggere
Notiziario Aduc, 28 marzo 2008
Gratuità nell’accesso ai metodi contraccettivi e depenalizzazione di tutte le condotte legate al consumo personale di droghe leggere come l’auto coltivazione della cannabis. Sono alcuni temi sui quali si concentrerà l’attenzione dei Giovani della Sinistra Arcobaleno con iniziative che si svolgeranno nelle ultime settimane di campagna elettorale.
Si comincia sabato 29 marzo, spiega una nota, con la distribuzione gratuita di birre dopo la mezzanotte per protestare contro le ordinanze comunali proibizionistiche che vietano la vendita di alcolici dopo un certo orario. Da oggi fino al voto, saranno organizzati banchetti informativi presso le sedi universitarie e in tutti i luoghi di aggregazione giovanile e verranno distribuiti i preservativi e le cartine "arcobaleno".
Una presa di posizione contro chi promuove la moratoria per modificare la 194 e contro la legge Fini-Giovanardi che criminalizza migliaia di giovani che fanno uso di droghe leggere, e alimenta il traffico illecito con cui prosperano le organizzazioni criminali organizzate. Il 2 aprile invece, è prevista un’iniziativa sugli autobus, per rivendicare la gratuità del trasporto pubblico per studenti e lavoratori precari.
I Giovani della Sinistra L’Arcobaleno, prosegue la nota, propongono l’abolizione delle norme previste nella legge 30 che favorisce l’abuso dei contratti a termine e, sulla scorta dell’esperienza maturata in diversi paesi d’Europa, l’istituzione per legge della Retribuzione Sociale da riservare ai giovani disoccupati di lunga durata, che consista di reddito e servizi sociali gratuiti. Inoltre, è in programma un’azione simbolica per protestare contro il copyright e le eccessive restrizioni della Siae, che a causa dei prezzi eccessivi di accesso alla cultura, strozzano non solo le possibilità di acquisto degli utenti, ma anche la possibilità di emergere di qualsiasi nuovo artista. Per questo è prevista la distribuzione di 500 cd masterizzati con materiale pirata (data e luogo ancora da definire). Infine, sono previste due feste per il 5 e il 9 aprile, la prima all’insegna del reggae a Scandicci. La festa del 9 sarà invece la serata conclusiva della campagna dei Giovani de La Sinistra l’Arcobaleno.
iustizia: fabbrica (elettorale) della paura, nuova barbarie
di Franco Giordano (Sinistra l’Arcobaleno)
Liberazione, 28 marzo 2008
È possibile, anche nel pieno della campagna elettorale e nel fuoco della contrapposizione, lanciare un appello a tutte le donne e gli uomini che un tempo si sarebbero definiti "di buona volontà" e, aggiungerei, di sana ragionevolezza?
È lecito chiedere a tutti, ai politici come agli opinionisti, di fermarsi un attimo a riflettere sui rischi che si corrono, in termini politici, etici e persino di igiene mentale collettiva, continuando a inseguire e blandire le peggiori pulsioni che circolano nell’opinione pubblica sul tema delicatissimo e nevralgico della sicurezza?
Noi non abbiamo mai affermato, nonostante l’immensa distanza che ci divide, che il programma del Pd sia identico a quello della destra berlusconiana. E tuttavia è un fatto, e forse il più preoccupante registrato in queste settimane di campagna elettorale, che sui fronti delle politiche economico-sociali e della sicurezza i discorsi di Walter Veltroni nel nord del paese non si siano distinti in nulla da quelli della Lega e del Pdl, a partire da una forsennata campagna securitaria.
Tutte le forze politiche, a eccezione della Sinistra Arcobaleno, gareggiano nel fomentare e rinfocolare una richiesta di sicurezza declinata in termini di pura militarizzazione del territorio. Accreditano una visione dell’altro da sé, sia esso il povero o l’immigrato, come potenziale minaccia, pericolo latente per definizione. Spalleggiano il miraggio, tanto diffuso quanto bugiardo; di poter lenire i morsi dell’insicurezza dilagante ricorrendo solo a un immaginario repressivo sempre più esasperato.
È un rimedio inefficace e devastante, destinato ad acuire il male che si propone di guarire. A rendere il paese, e in particolare le sue aree del nord e del nord-est, sempre più insicure. Senza una drastica sterzata culturale queste aree sono destinate a alimentarsi di un bisogno permanente e crescente di controllo sociale. Una spirale perversa e infinita. Un vicolo cieco che ci condurrà inevitabilmente in una situazione simile a quella in cui versano oggi gli Usa: un carcerato ogni cento abitanti e nessun risultato in termini di sicurezza.
L’insicurezza che grava come un’ombra cupa in particolare sui cittadini del nord non deriva da una impennata della criminalità. Non riflette un problema reale ma la presenza pervasiva di uno spettro, tanto più inquietante perché sfuggente e impalpabile: quello di un’esistenza diventata precaria a tutti i livelli, dal lavoro alla pace alla sopravvivenza stessa del pianeta.
Questa paura onnipresente e immateriale "liquida" (direbbe Baumann), diventa almeno più sopportabile se la si attribuisce a qualche minaccia tangibile come gli immigrati o gli scippatori. Il meccanismo classico della "fabbrica ella paura".
L’intera Italia vive oggi in una situazione collettiva che somiglia a quella del "Grande Fratello": si può essere esclusi dalla "casa comune" senza un motivo preciso, casualmente. L’insicurezza si afferma come vera e propria dimensione esistenziale. Una "insicurezza ontologica primaria" avrebbe detto lo psichiatra inglese Ronald Laing, che proprio in questa condizione di sofferenza esistenziale rintracciava le radici della schizofrenia.
Trasferita però a livello di massa e non più solo di singolo individuo. La feroce metafora simbolica del "Grande Fratello" illustra anche la contraddizione di fondo che rende la situazione irresolubile. Lo schema stesso di quella competizione impone infatti la rinuncia prioritaria a ogni solidarietà tra gli abitanti-vittime, la cancellazione di ogni spazio di vera e sostanziale socialità.
Viene così eliminato il solo elemento in grado di contrastare con successo il senso di solitudine, precarietà e insicurezza esistenziale: un saldo vincolo solidale e sociale. Si diffonde, di conseguenza, una sensazione di minaccia latente e indefinita. E come ci raccontano le cronache quotidiane, questa minaccia non assedia le case inutilmente blindate dall’esterno, ma penetra al loro interno.
Esplode nella proliferazione di casi traumatici di violenza e di follia o nella perenne ansia esistenziale. Non è filosofia da anime belle. Sono le nude statistiche, che registrano nelle violenze in famiglia (e nel vicinato) la principale causa di morte violenta in Italia. Questa condizione di insicurezza permanente, questa diffusione di disagio psichico, questo quadro che non è esagerato definire "dissociazione di massa" costituisce, alla lunga, una minaccia per il vivere civile, e per la democrazia stessa.
Non credo lo si possa dire meglio di come ha fatto Enzo Mazzi alcuni giorni fa: "Uno degli elementi che emergono con prepotenza nella società attuale è certamente l’insicurezza e la paura. E la paura, come si sa, ci fa regredire, ci rende bambini, ci induce a affidarci figure mitiche di salvatori, abdicando alla propria responsabilità e autonomia e svuotando la rete delle relazioni".
La sola terapia per l’insicurezza di massa, per la crisi profonda che da anni si registra nel nord del paese, è invece proprio la ricostruzione di quella rete di relazioni. Uno spazio pubblico capace di restituire per intero una dimensione di comunità in cui ricostruire il vincolo sociale smarrito. Cancellato dall’imporsi di una logica puramente competitiva, fondata sulla contrapposizione con altri territori nello scenario globale. Il nodo della sicurezza e quello della costruzione di un sistema economico-sociale diverso, a conti fatti, sono facce del medesimo prisma, non problemi distinti.
È l’imporsi di un preciso sistema produttivo diffuso nel territorio, fondato sulla massima competitività, che ha desertificato le relazioni sociali ed umane in quelle regioni. Il percorso che dobbiamo intraprendere è dunque opposto a quello del leghismo, che precisamente sull’esaltazione di quel modello produttivo, dell’identità territoriale e dell’isteria securitaria fonda da sempre le proprie fortune. Eppure in Italia un enorme problema di sicurezza esiste. Condiziona e imprigiona le energie di tanti giovani nella società meridionale.
Parlo della criminalità organizzata, che sposa la modernizzazione capitalistica ed investe in controllo del territorio e valorizzazione economica e finanziaria dei propri interessi. Parlo della violenza bestiale di cui sono tornate a essere vittime le donne, non per colpa dei "diversi", ma dei loro padri e mariti. Di una dimensione del lavoro che sempre più somiglia a un fronte bellico: nelle fabbriche e nei cantieri italiani, negli ultimi anni, sono morti più lavoratori dei soldati americani periti in Iraq.
E ancora delle devastazioni ambientali che si traducono con crescente puntualità in vere e proprie catastrofi. Sono questi i temi che una politica responsabile e interessata alla costrizione di una società alternativa mette in testa al capitolo dedicato alla sicurezza: non la costruzione di muri inutili, non una insensata militarizzazione del territorio.
Per riannodare i fili spezzati dell’intima insicurezza esistenziale occorre dunque una grande e molecolare battaglia politico-culturale. Serve una vera e propria mobilitazione democratica. Non si può inseguire la destra sul suo terreno cercando di ereditarne le parole d’ordine. È totalmente sbagliato, come si è visto, dire che il tema della sicurezza non è né di destra né di sinistra.
Per quella via non si può che finire, come hanno fatto i sindaci del Pd con la campagna contro i lavavetri, per scatenare un bestiale conflitto tra gli ultimi e i penultimi, non si può che scambiare la guerra contro la povertà per una guerra contro i poveri. Altro che problema "né di destra né di sinistra"! Al contrario, sembra oggi proprio questa la frontiera che separa la più moderna e schizofrenica tra le barbarie o un nuova civiltà fondata su relazioni umane più ricche.
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