sabato 19 gennaio 2008

carcere della pazzia, della droga e della malattia


La testimonianza di Santino, ex persona detenuta a Cagliari
Rumore. Urla. Depressione e pazzia. Psicofarnaci. Droga. Vino e valium. Bombolette di gas da sniffare. Lamette da barba per tagliarsi. Sporcizia. Puzza. Topi e scarafaggi. Malati mentali. Tossici. Malati fisici. Chi sta sulla sedia a rotelle. Chi c’ha l’epatite o l’aids. Chi c’ha la scabbia, la tubercolosi, la meningite. Ogni tanto, in una cella vedi una cinghia attaccata alle sbarre, e lì appeso uno dei tanti che non ce l’hanno fatta.
E’ questo il carcere Buon Cammino. Il carcere di Cagliari. Io ci sono stato per 2 anni e c’è mancato poco che non impazzivo o che non la facevo finita. Il giorno del mio arresto, mentre salivo il colle Buon Cammino dove sta il carcere, vedevo dai finestrini della macchina stà fortezza antica e tetra. Avevo paura, ma mai avrei pensato di trovarci dentro quella gente. Il carcere di Cagliari non è solo vecchio e sovraffollato. Il Buon Cammino è il carcere della pazzia, della malattia e della droga.
Pochi sono i detenuti sani. Su 355 detenuti, eravamo solo ottanta a non avere problemi fisici o mentali. Difficile chiamare un posto così carcere. Difficile chiamare quella carcerazione, pena.
Dentro è diviso in due bracci. Il destro e il sinistro. Si tratta di due edifici enormi, ma dentro vuoti. Nel senso che ogni piano non è diviso dall’altro dal soffitto, ma da una rete di ferro. Per raggiungere le celle si usano scale e ballatoi sempre di ferro. Così se stai al piano terra vedi la cella del terzo piano. Casermoni grigi e caotici. Il silenzio non esiste nel carcere di Cagliari.
Quando sono arrivato al Buon Cammino mi hanno messo in una cella al piano terra del braccio destro. Una catacomba. Buia, umida e sporca. Dentro due file di letti a castello a tre piani. Totale 6 detenuti. Quella cella era talmente buia che anche di giorno tenevamo la luce accesa. Lo spazio per viverci era pochissimo. Il bagno era uno sgabuzzino, con la tazza alla turca e un lavandino. Stavamo chiusi lì per tutto il giorno.
Ma c’è di più. Dentro quella cella, tetra e fredda, c’erano dei ragazzi malati. Due avevano gravissimi problemi psichici. Proprio da ricovero. Tanto che li imbottivano di psicofarmaci. Un altro era malato di cuore. E se ne stava sempre sdraiato. E poi altri due erano tossicodipendenti. Si prendevano di tutto. Quando non trovavano la droga, sniffavano pasticche di antidolorifici o le bombolette di gas che usavamo per cucinare. Per loro era abitudine bere il vino con il valuim. Un’abitudine e uno sballo a basso costo.
A pensarci ora, mi sembra un miracolo che non sono impazzito anche io, o che non mi sono buttato sulla droga, sulle pasticche o sul vino.
Dopo 7 mesi mi hanno trasferito in una cella del primo piano. Stavo meglio solo perché c’era un po’ più di luce. Ma dentro il panorama umano dei detenuti era lo stesso. Uguale la cella. Uguale le malattie. E’ stato lì che ho capito che il carcere di Cagliari è un lazzaretto, e non un posto dove scontare una pena.
I mesi passavano e mi accorgevo che quelle urla, quello sballo aveva un suo ritmo. Una sua cadenza regolare. Si modulava a seconda della distribuzione di metadone, di vino e di psicofarmaci.
Più casino prima del passaggio dell’infermiere o dello spesino. Meno casino dopo. La sera, passato l’effetto del farmaco o del vino, si ricominciava da capo.
E proprio il vino giocava un ruolo importante.
L’alcol è la droga numero uno e il vino diventa merce di scambio. Ti do le sigarette e tu mi dai il vino. Infatti ogni cella può comprare solo mezzo litro di vino al giorno. E c’è chi lo accumula, per poi scambiarlo. I vecchi galeotti queste cose non le ammettono. Ma molti se ne fregano e lo fanno. Un litro di vino Tavernello equivale a un pacchetto di sigarette. E spesso uno che sta sotto psicofarmaci, e non potrebbe bere, si ubriaca ed è facile immaginare quello che succede. E’ un caos, continuo e terribile.
Io mi rannicchiavo sulla branda, cercando di non impazzire, mentre c’era chi si metteva a strillare. Dal piano di sopra un altro lanciava una bomboletta di gas accesa e la faceva esplodere. In un'altra cella c’era chi si tagliava le braccia e sanguinava come una fontana. Un incubo che si ripeteva tutti i giorni.
Poi per fortuna ho iniziato a lavorare. Facevo lo spesino. Lavorando ho potuto girare tutto il carcere Buon Cammino e così ho visto il girone peggiore dell’inferno del carcere di Cagliari. Il centro clinico. Un manicomio e un posto per morire. Lì ci sono i detenuti malati di mente più gravi, quelli da letto di contenzione. Poveracci. E poi lì ci sono i malati terminali. Quelli destinati a morire. Centro clinico lo chiamano. Ma quella è l’anticamera della morte. E infatti ci muoiono.
Il centro clinico non è altro che un corridoio con le celle.
Passi davanti la cella di un ragazzo che si crede super man e che ti chiede una sigaretta. In un'altra, c’è uno attaccato alle sbarre con la bava alla bocca. Più avanti, la cella di un uomo pelle e ossa che sta per morire. Altri tre passi, e trovi anziani o paralizzati. Gente che non ha un posto dove andare e allora li tengono lì. Stai male quando passi per quel corridoio. Una mattina di qualche mese fa, in una di quelle celle del centro clinico si è impiccato un ragazzo. A noi è sembrato normale.
Non chiamatelo carcere. Il carcere Buon Cammino di Cagliari è altro.
Santino, 48 anni.
Dalle lettere a Radio Carcere

1 commento:

Anonimo ha detto...

prova commenti

Don Ettore Cannavera, riflessioni da "La Collina"

L'Associazione 5 Novembre, ha intervistato Don Ettore Cannavera, fondatore della comunità di accoglienza "La Collina", rivolta a giovani-adulti, di età compresa tra i 18 ed i 25 anni, che vengono affidati dalla Magistratura di Sorveglianza come misura alternativa alla detenzione. Un interessante intervista sui temi della Giustizia, del Carcere, del precariato giovanile e della cultura della Solidarietà e dell'accoglienza.